Dicembre 2015, intervista su Gente Sana Tenersi per zampa fino alla fine, Leggi tutto
Tenersi per zampa fino alla fine
Oggigiorno, se un animale domestico soffre di una malattia terminale, lo si sopprime. Secondo Stefano Cattinelli e Daniela Muggia è tempo di mettere in discussione una pratica poco compassionevole, introducendo nuove modalità di accompagnamento alla morte dei nostri amici animali.
di Cindy Fogliani
«Lasci che sia la gatta a guidare», e il consiglio che il medico veterinario Stefano Cattinelli fornisce a Daniela Muggia, a cui è stata consigliata la soppressione della gatta Cleo in seguito alle sue gravi condizioni di salute, che lo ha contattato perché indecisa sul da farsi.
Daniela è tanatologa con una lunga esperienza lavorativa a fianco di malati terminali e di accompagnamento empatico alla fine della vita; dall’incontro dei due nasce il libro: «Tenersi per zampa fino alla fine - Accompagnamento empatico e cure palliative per gli animali alla fine della vita» e prende avvio un nuovo movimento di coscienza in Italia, ispirato a quanta già succede nei paesi anglosassoni, secondo cui oltre a sopprimere o curare ad oltranza c’è una terza via: accompagnare.
«La terapia palliativa rappresenta il passaggio tra il curare e il prendersi cura. (...). Oggi sono accessibili molti farmaci analgesici e la nostra capacità di alleviare il dolore e la qualità della vita non è mai stata così efficace». Se questa modalità di accompagnamento di malati terminali, rinunciando all’accanimento terapeutico, è ormai la prassi per gli esseri umani, nella medicina veterinaria la prassi è a tutt’oggi l’eutanasia. Sarebbe tempo, affermano gli autori, «di prendere atto del cambiamento della sensibilità comune nei confronti della morte di un animale da compagnia». Cosa che gli autori - che hanno accompagnato diversi animali e proprietari di animali durante questa intensa fase relazionale - fanno attraverso i loro seminari e il citato libro, nato dall’esigenza di offrire alcune risposte alle numerose richieste ricevute in merito. L’opera di Stefano e Daniela ci confronta con il tema della morte, spesso scomodo da affrontare per le profonde risonanze e timori che suscita nell’essere umano, e per questo sovente relegato tra le mura delle strutture sanitarie specializzate, nonostante «morire a casa propria sia il desiderio della maggior parte delle persone, e anche una gran cosa per l’animale».
Ne sono testimonianza i numerosi casi reali raccontati nel libro dai quali risulta chiaro che, quando è nelle condizioni di poterlo fare, l ‘animale decide quando, dove e accanto a chi esalare l’ultimo respiro.
Accompagnare con empatia un morente - persona o animale che sia - è sicuramente un atto di amore e compassione che permette al morente di affrontare nel migliore dei modi questa esperienza, e a tutti gli attori coinvolti di prepararsi al distacco portando a compimento la loro relazione terrena. Questa sarà di aiuto nell’elaborazione del lutto per chi resta, e nel prepararsi alla dipartita per chi se ne va.
L’accompagnamento alla morte di persone - ora anche animali - praticato da Daniela è ispirato alla tradizione buddista tibetana e include la pratica del tonglen, una pratica meditativa - il nome significa «dare e ricevere» - con cui si prende su di sé la sofferenza altrui per trasformarla in gioia, apertura e guarigione. Questo metodo sviluppa nel meditante la compassione che permette di orientare eticamente l’empatia che può essere risvegliata con la pratica di un’altra meditazione, quella del respiro. Tutto ciò permette di entrare in contatto profondo e non mediato (da convinzioni, credenze e bisogni propri) con l’altro, persona o animale che sia, per comprendere non «cosa vorrei io al posto suo», ma «cosa vorrebbe veramente lui».
In realtà, affermano gli autori, questa capacità è «comune in bambini, morenti e animali», ma chi vuole usarla con loro senza appartenere a queste categorie dovrà in qualche modo “ripescarla” dal di dentro; e la meditazione tonglen è uno strumento che aiuta a farlo».
Secondo il buddismo tibetano il momento della morte porta con sé una grande opportunità di raggiungere l’illuminazione, permettendo alla mente di riconoscere la propria vera natura e uscire in questo modo dal ciclo delle rinascite. A questo proposito gli autori citano Jigme Rinpoche in «A... come Buddha!»: «La natura della coscienza animale non è diversa dalla nostra, dal momento che anch’essa è radicata nella natura buddhica; differisce soltanto la loro visione del mondo, e quindi le loro reazioni. Questa significa che vi è solo una differenza esteriore fra la coscienza di un essere umano e quella di un animale.
In realtà, l’una e l’altra sono oscurate da emozioni e ignoranza, le quali impediscono il manifestarsi della saggezza naturale; e se il desiderio e l’attaccamento sono più tipici del genere umano, l’ignoranza rappresenta l’ostacolo principale per gli animali».
In questa tradizione e nato il phowa, che significa «trasferimento della coscienza al momento della morte», una pratica considerata efficace e preziosa per affrontare la propria morte, ma anche per aiutare nella purificazione malati, morenti e defunti. Chi pratica il phowa sarà in grado di guidare la propria morte per raggiungere l’illuminazione, ma anche di sostenere in questo senso l’esperienza di morte altrui, sia esso persona o animale.
II phowa tradizionale è una pratica complessa che viene insegnata in ritiro da un maestro qualificato, ma Sogyal Rinpoche nel Libro tibetano del vivere e del morire ne espone una versione essenziale che mette questa pratica davvero alla portata di tutti. La visione proposta dagli autori carica di sacralità e umanità il momento della morte, permettendo a chi assiste il morente di offrire adeguato sostegno e partecipare attivamente a un processo che accomuna tutti gli appartenenti al regno animale, occupandosi della parte logistica, fisica e psicologica del processo, ma anche di quella spirituale.
Nell’intento di promuovere una maggiore consapevolezza per una dignitosa morte degli animali gli autori permettono in realtà di confrontarsi in modo approfondito con il tema del morire, e della dignità del morire, in genere. Anche perché, infine, i confini tra esseri umani e mondo animale paiono scomparire davanti a un destino e a una natura che li accomuna.
Le citazioni sono tratte dal libro Tenersi per zampa fino alla fine - accompagnamento e cure palliative per gli animali alla fine della vita.
Di Stefano Cattinelli e Daniela Muggia. Edizioni Amrita.
3.5.2018, intervista su Eterno Ulisse A tu per tu con la morte, come vivere sereni l'ultimo viaggio in Percorsi di guarigione Leggi tutto
Percorsi di guarigione
A TU PER TU CON LA MORTE
come vivere sereni l’ultimo viaggio
Abbiamo visto nelle scorse pagine come la salute, l’alimentazione, il movimento e la meditazione siano fattori integrati e come in questa società si dedichi molta attenzione alla lunghezza piuttosto che alla qualità della vita. Ora affrontiamo un altro aspetto praticamente ignorato nel nostro mondo contemporaneo: la morte. Su questo tema vi riportiamo l’esperienza di Daniela Muggia, tanatologa, che abbiamo incontrato per affrontare con lei le proposte di questa disciplina così interessante e così poco conosciuta. L’Accompagnamento Empatico della Fine della Vita – o “ECEL”, come lo ha definito Daniela, è un approccio che ha radici sia occidentali che orientali, nel quale le più recenti scoperte neuroscientifiche e la sapienza tibetana si incontrano al fine di infondere serenità in chi si appresta ad affrontare l’ultimo viaggio.
a cura di Daniel Tarozzi
«Quando nasciamo non sappiamo se studieremo, non sappiamo che lavoro faremo, non sappiamo se ci sposeremo, ma sappiamo che moriremo – eppure la morte, con tutto quello che la circonda, è stata davvero rimossa dalla nostra civiltà ed è rimasta un grande tabù».
Le parole di Daniela Muggia mi riecheggiano ancora nella testa diversi giorni dopo il nostro incontro. Sì, la morte è l’unica certezza di questa vita e, come diceva il grande Totò in una celebre poesia, la morte è una livella che si porta via ricchi e poveri, potenti e sconosciuti, senza alcun tipo di discriminazione.
Eppure, questa fase inevitabile della nostra esistenza è stata totalmente cancellata dalla nostra quotidianità. Già Ugo Foscolo, a inizio 1800 – durante la scrittura dei suoi “Sepolcri” – notava come i cimiteri in passato fossero stati realizzati nel centro delle comunità, per essere poi progressivamente allontanati e posti fuori dalle cinte murarie[1].
La scusa ufficiale era quella del motivo sanitario, ma l’effetto prolungato e permanente che si è innestato è stato la creazione di un vero e proprio tabù. I nostri bisnonni facevano anche dieci o dodici figli e – purtroppo – alcuni di essi morivano in tenera età. Era un grande dolore, ma la vita andava avanti. Allo stesso modo, quando un anziano se ne andava non c’era quasi mai il tempo di fermarsi a soffrire perché, contestualmente, una o molte altre vite stavano nascendo (si veda l’inizio di Cento anni di solitudine per avere un esempio di quanto appena scritto). La morte era quindi qualcosa di normale, di naturale.
Oggi no. Oggi di morte non si parla, non si “vede”, o fa scalpore, nei telegiornali (persino le immagini di guerra sono state “ripulite” dai cadaveri). La morte è vissuta come qualcosa di inconcepibile, da allontanare il più possibile e negare con tutte le nostre forze.
E così accade che gli anziani invecchino – e spesso muoiano – soli. Accade che i malati terminali muoiano ancor prima di smettere di vivere. Accade che sia i morenti che i loro cari non abbiano alcun accompagnamento in questo difficile percorso, nessuno strumento medico, umano, pratico e spirituale per gestire al meglio questo fondamentale ed inevitabile passaggio.
Ecco perché, mossi da stupore e amarezza di fronte a questa situazione e stanchi di non avere alternative, abbiamo deciso di incontrare Daniela Muggia[2], tanatologa, per affrontare con lei gli interrogativi qui sopra accennati e per scoprire quali siano le proposte di questa disciplina così interessante e così poco conosciuta.
«Quando ci chiamano nelle scuole primarie perché magari c’è stato un lutto che ha colpito una classe – ci spiega Daniela – troviamo insegnanti e genitori che non sanno come gestire la cosa e che spesso credono che sia meglio non parlarne, lasciando così i bambini alle prese con qualcosa che non capiscono senza avere la conoscenza di come stare di fronte alla morte». Qui, come negli ospedali, come negli studi veterinari, come nella vita di tutti quanti, diventa utile conoscere la tanatologia.
La tanatologia
La tanatologia (dal greco thànatos (θάνατος) “morte”, e lògos (λόγος) “discorso” o “studio”) è la scienza che studia la morte dal punto di vista fisico, psicologico, sociologico, antropologico e spirituale. Questa disciplina si occupa anche della ritualità che caratterizza questo passaggio e delle strategie che, nel mondo, gli umani hanno messo a punto per elaborare il lutto. Daniela, formatasi alla scuola di Cesare Boni, si definisce “una tanatologa militante, ossia che sceglie di accompagnare davvero la fine della vita ed il lutto”. La Tanatologia moderna, fondata da una “militante della prima ora”, la dottoressa Elisabeth Kübler-Ross, studia l’immediato “prima”, il “durante” e il “dopo”, si interroga su cosa avvenga durante la morte, su cosa dica la scienza e su quali siano le soluzioni proposte dalle diverse tradizioni in risposta a un passaggio così critico. La tanatologia di per sé non è legata ad una credenza specifica, ma anzi cerca di studiarle tutte, compresa l’assenza di credenze. Daniela, in quasi trent’anni di studio, ha scelto di approfondire principalmente la tanatologia tibetana, che ci è giunta intatta: è uno dei corpus più sviluppati, insieme a quelli del Messico centrale.
Nel 2004, inoltre, ha messo a punto il metodo ECEL, Empathic Care of the End of Life (Accompagnamento Empatico della Fine della Vita), un approccio fondato su due radici: una occidentale, costituita dalle più recenti scoperte neuroscientifiche e neurocardiologiche, e basata sul cambio di paradigma imposto dalla fisica quantistica; l’altra orientale, costituita dalle tecniche e dalla sapienza della tanatologia tibetana in parte descritta nell’ottimo Il Libro tibetano del vivere e del morire, di Sogyal Rinpoche[3].
Un approccio basato sull’empatia e la compassione
«L’approccio tibetano – continua Daniela – è particolarmente interessante per chi accompagna i morenti. Parte, infatti, dalla constatazione che questi ultimi, quando l’estremo passaggio si avvicina, ritrovano il grado di empatia che avevano quando erano bambini». Bambini e morenti, guarda caso, proprio perché ovviamente più fragili e bisognosi, hanno a disposizione questo straordinario strumento, lo stesso che permette a una muta o a un gruppo di animali di cacciare insieme, di collaborare, insomma, per sopravvivere.
«Ecco perché gli accompagnatori che si formano con il metodo ECEL si addestrano a ritrovare delle capacità di comunicazione empatica molto forti, che dopo l’infanzia finiscono in sordina: queste, durante il caos prodotto dalla fine di una vita (tra terapie, controterapie, ospedali, casa, cure ufficiali e alternative, indecisioni e paure) aiutano il paziente a morire in pace. Come accade? Anche quando egli non è più in grado di comunicare, infatti, il suo potenziale stato di ricezione empatica è in funzione, e se chi gli è intorno riesce ad entrare in uno stato di pace interiore e a mantenerlo qualsiasi cosa accada, il trapasso avverrà in modo sereno. Sembra l’uovo di colombo: se io sono in pace, il morente muore in pace. Sembra, ma non lo è, perché con tutto il caos relazionale, economico, emozionale e curativo che c’è intorno alla morte, per essere in pace occorre che io – l’accompagnatore – abbia un addestramento semplicemente... di ferro».
Una sfida davvero difficile considerando che non basta “mostrare serenità” ma è necessario incarnarla veramente se vogliamo aiutare la persona in questione.
Accanto all’empatia, inoltre, è necessario sviluppare la compassione: «L’addestramento all’empatia non è sufficiente di per sé, giacché anche un torturatore è un maestro di empatia: ce ne vuole un bel po’ per sapere fin dove spingersi e ritirarsi appena poco prima che la vittima muoia e il terrificante “gioco” finisca. L’empatia di cui abbiamo bisogno deve essere dunque eticamente orientata alla compassione. E le neuroscienze dimostrano ormai come questi due stati, empatia e compassione, abbiano origine in parti distinte del nostro cervello. Quindi, essendo il cervello neuroplastico, ci vorranno, per sviluppare le due aree ad essi preposte, due diversi addestramenti. Ed è proprio quanto ha sempre proposto la tanatologia tibetana: due addestramenti che ad un certo punto si prendono per mano».
L’Associazione Tonglen ONLUS per l’Accompagnamento empatico dei morenti e delle loro famiglie
Daniela ha iniziato ad occuparsi attivamente di Accompagnamento dopo la morte del padre. In quel periodo studiava già da tempo con i tibetani. Racconta: «La morte di mio padre sarebbe dovuta essere qualcosa di disperato, terrificante, difficile. Io l’ho accompagnato con quello che avevo compreso, con i primi strumenti ancora incompleti, e quello che ho visto mi ha convinto che erano ottimi. Perché anche se il cuoco è inesperto, se gli ingredienti sono eccellenti il cibo sarà buono. E malgrado io abbia fatto molti errori in quel primo accompagnamento, il suo passaggio è strato straordinario. Malgrado me. E mi sono detta che questo non poteva restare un caso isolato, che morire bene era, ed è, un diritto fondamentale dell’uomo, come le pari opportunità, come l’assistenza sanitaria. Una morte dignitosa, quieta, lucida, ispirata e ispirante, provoca un’elevazione collettiva di tutta la famiglia. Ho quindi iniziato a studiare di più, ho incontrato Cesare Boni, che è stato uno dei miei principali maestri: con lui ho fatto il corso di perfezionamento – oggi si direbbe “un master di secondo grado” – in Tanatologia alla Federico II di Napoli. Più tardi ho sviluppato gli studi neuroscientifici».
La nascita di un gruppo che lavorasse su questa tematica a quel punto era quasi inevitabile. Così un gruppo di volontari a Torino fonda l’associazione Tonglen. «Si rivolgono a noi persone con diagnosi di malattia terminale, e a volte ovviamente abbiamo il piacere di accompagnarle anche verso una remissione. In tutti i casi, aiutiamo il paziente, quando è ancora in grado di esprimersi, ad affrontare i sospesi della sua vita. Sia quelli relazionali che quelli pratici. Il modo in cui una diagnosi viene comunicata fa la differenza, ma ancora troppi pochi medici ne tengono conto. Noi ci troviamo spesso davanti a persone smarrite, spaventate, in uno stato di grande agitazione, dolore, paura, confusione, anche perché non hanno mai pensato alla morte come ad un’evenienza che potesse colpire proprio loro, magari ancora così pieni di progetti, nel fiore della vita. Quando accompagniamo qualcuno teniamo conto dell’interdipendenza dal proprio ambiente affettivo e in qualche modo diventiamo i portavoce del malato nei confronti dei suoi cari, cercando di comporre i conflitti e di far rispettare il suo volere; siamo anche prodighi di informazioni pratiche, per esempio circa le cure palliative, un diritto di cui molti ignorano ancora l’esistenza, anche tra i medici di base.
Le tecniche meditative con cui ci addestriamo non sono finalizzate a ottenere una mezz’ora di rilassamento, ma a una profonda trasformazione della mente destinata a “stingere” su ogni azione che compiamo, e quindi accade che si sia parecchio contagiosi. Ci serviamo consapevolmente del campo elettromagnetico del cuore, dei neuroni specchio e così via, per riuscire in questo compito. Quando questo avviene assistiamo a quelle che noi chiamiamo “le morti alte”, nel senso che sono elevatissime, e le testimonianze che abbiamo sono molto belle sia da parte delle persone che vengono accompagnate, che da parte dei loro famigliari e – in alcuni casi – persino dai loro curanti».
La meditazione
Oggi ci sono circa quindici persone attive nell’accompagnamento empatico all’interno dell’associazione, più una sessantina di altre che, negli anni, si sono formate ma al momento non possono o non si sentono di eseguire personalmente un accompagnamento. Costituiscono però un gruppo che pratica alcune tecniche meditative tradizionali, che sono di sostegno al malato quanto all’équipe che lo accompagna, ai medici che devono fare degli interventi terapeutici e alla famiglia.
«Queste meditazioni a distanza – ci spiega Daniela – secondo la tradizione sarebbero altrettanti input positivi e amorevoli nei confronti di una data persona con i quali verrebbe nutrito il campo quantico, inteso, come lo intendono ormai molti scienziati, come un campo di informazioni altamente cognitivo. Sappiamo bene che questi intenti sono come un granello di sabbia se paragonato all’immensità del deserto, ma sappiamo anche che basta variare un addendo di pochissimo per cambiare il risultato di un’addizione lunghissima...».
La meditazione, essendo uno stato sovrapponibile ad ogni altra attività, consente a Daniela e ai suoi compagni di avventura di svolgere un volontariato così impegnativo senza essere travolti dal dolore. L’addestramento meditativo che insegna la Muggia, infatti, permette di esporti alla sofferenza dell’altro senza temere la fusione, ed è quanto ha fatto il successo dei suoi corsi per medici e infermieri e, in generale, per chi lavora nella relazione di aiuto. Proprio chi è quotidianamente esposto al dolore, infatti, è maggiormente a rischio di burn-out. Ma con il duplice addestramento alla meditazione che sviluppa empatia e a quella che sviluppa la compassione si ha un abbassamento di conflitti relazionali, spesso causa prima di stress, grazie a una diversa percezione delle cose del mondo.
Accanimento terapeutico ed eutanasia: due facce della stessa medaglia?
In una società incentrata sulla quantità piuttosto che sulla qualità della vita, temi come l’eutanasia attiva e l’accanimento terapeutico suscitano spesso dibattiti violenti. L’approccio proposto da Daniela Muggia non propende per una delle due posizioni, ma tende a prendere le distanze da entrambe.
«Di fronte all’approccio da avere nei confronti di una persona gravemente malata noi proponiamo una terza via – ci spiega la tanatologa – quella della desistenza terapeutica. Questa, unita alle cure palliative e a determinate pratiche meditative, consiste nel desistere dal fare gli interventi “inutili”, come ad esempio cure invasive o esami eccessivi in un malato stanco ed evidentemente arrivato a fine corsa, mantenendo invece tutti quelli che possono essere utili alla qualità della vita residua come le cure palliative, che permettono di tenere sotto controllo i sintomi della sofferenza fisica o psichica e l’accompagnamento empatico eticamente orientato alla compassione che permette di affrontare quell’altra parte enorme di sofferenza comunicativa, sociale, relazionale e così via».
Quanto al problema dell’eutanasia attiva, è un bisogno che spesso evapora davanti a un accompagnamento efficace. Soleva dire Cesare Boni[4] che la sofferenza del malato terminale è per il 30% dolore fisico, e qui devono intervenire le cure palliative in cui si inscrive la battaglia, appena iniziata, per metterle alla portata di tutti e non solo di poche categorie di malati, ma anche per poter fare uso di varie sostanze psicotrope al momento non consentito. Il restante 70% (sofferenza comunicativa, sociale, relazionale, e così via) può essere lenito con l’accompagnamento. «Ascoltare il malato da uno stato profondo spesso ci rivela la sua profonda saggezza, una resilienza straordinaria di cui egli non è consapevole; quando queste cose emergono, gliele restituiamo in modo che ne prenda coscienza. Mi è capitato di incontrare malati che si sono scoperti un ultimo ruolo: permettere agli altri di esercitare la compassione su di loro. E questo ha reso per loro la vita residua così preziosa che non hanno più parlato di eutanasia attiva. Allora ho assistito ad una “morte alta”, unita a gratitudine per aver assaporato questo ruolo qualitativo alla fine della propria storia, per il tempo rimasto. Con questo però va detto che nessuno può permettersi di giudicare, e nessuno dovrebbe decidere per gli altri. Il malato ha, in sé, una natura saggia e buona, ed occorre semmai aiutarlo a mantener le redini della propria vita fino alla fine».
Daniela non lavora solo con gli esseri umani, ma anche con gli animali. Qui la medicina palliativa è ancora ai primordi. Per fortuna sempre più veterinari stanno sviluppando questo settore. Tra questi Stefano Cattinelli, che ha anche scritto con Daniela Muggia il libro Tenersi per zampa fino alla fine. Anche in questo caso è fondamentale lavorare sullo stato di pace di chi è accanto all’animale. Quest’ultimo non ha paura della morte (non ne possiede il concetto), ma ha paura della sofferenza. Tenere sotto controllo il dolore fisico e facilitare la sua quotidianità con una serie di accorgimenti, però, non basta: è altrettanto importante, come per i morenti umani, “saper diventare pace”, perché gli animali sono empatici. Lo sono sempre, non solo in certe fasi della vita. Per cui quando stiamo loro intorno disperati perché ci sentiamo impotenti, perché vorremmo che ci dicesse dove ha male, perché magari nella sua perdita imminente riecheggia un nostro lutto, o perché non disponiamo di un veterinario sensibile all’uso di antidolorifici e propenso invece all’eutanasia anche quando l’animale potrebbe vivere il suo tempo di vita naturale senza grossi problemi – circondato dalle persone che ama e a cui ancora dare il suo amore – egli diventa, essendo empatico, tutte queste nostre ansie e paure. Un dono avvelenato e inconsapevole, di cui davvero non avrebbe bisogno!
Il codice etico deontologico dei veterinari considera l’eutanasia un atto di compassione. In realtà – secondo Muggia e Cattinelli – la compassione dovrebbe, come per gli umani, far desistere da ogni trattamento o esame invasivo e inutile, tenere sotto controllo i sintomi fisici, e soprattutto non trasmettere loro ansie e paure che non avrebbero, imparando a infondere pace, in modo che il nostro amico animale muoia serenamente.
I veterinari sono peraltro le seconde vittime di un uso per nulla centellinato dell’eutanasia, perché di solito hanno abbracciato la loro professione per aiutare gli animali e non per sopprimerli; la facilità con cui si rinuncia alla palliazione in favore dell’eutanasia è probabilmente tra le cause principali dell’altissimo tasso di suicidi tra i medici veterinari. E le terze vittime sono gli amici umani di questi animali: essi arrivano alla fine della vita, quando ogni loro azione, anche quelle rimosse, viene a galla, con una disperazione intatta per aver acconsentito a una decisione che, subito dopo averla presa, ha scatenato un conflitto interiore. Conflitto che dovremo aiutarli a risolvere altrimenti non moriranno in pace per niente.
Morte: prima, durante e dopo...
Abbiamo affrontato lungamente l’accompagnamento alla morte. Ma Daniela ci ha anticipato che parte del lavoro avviene anche durante e dopo il trapasso.
«Dopo la morte della persona seguita, bisogna occuparsi del lutto di chi rimane. A questo proposito – spiega Muggia – proponiamo una serie di tecniche che aiutano ad accompagnare ancora l’essere che se n’è andato qualsiasi cosa diventi: c’è chi crede nell’inferno, nel paradiso, nel nirvana, in nulla. Ognuno ha le sue credenze. Quel che sappiamo con certezza è che in natura nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Possiamo quindi immaginare che la cognitività di questa persona possa essere riassorbita nella cognitività del campo quantico. È una visione tradizionale che si può spiegare in questi termini, oppure ricorrendo all’idea di coscienza non locale, ossia non limitata ad essere un prodotto del cervello, come dimostrano le NDE di persone nate cieche, che non hanno mai neppure fatto dei sogni visivi ma che, una volta accertata la morte clinica (con le attività del cuore e del cervello ridotte a una linea piatta), hanno avuto la ventura di fare ritorno. E hanno raccontato per filo e per segno quello che avevano “visto” in sala operatoria dopo essere stati dichiarati morti[5].
Noi accompagnatori non diamo connotati religiosi a nulla: lasciamo sempre che a guidare sia il morente, e se ha delle convinzioni fideistiche che possono essergli di sostegno ben vengano. E la stessa cosa facciamo accompagnando il lutto. Per chi vuole, proponiamo delle tecniche di meditazione, che si fanno per i 49 giorni che seguono la morte di un essere umano o di un animale, provenienti dalla tanatologia tibetana.
Quanto a ciò che avviene durante... Il tema è troppo complesso per affrontarlo in questo articolo. Lo affrontiamo però insieme al dottor Thupten Tenzin, medico in medicina allopatica oltre che in medicina tibetana, in un apposito seminario, Il processo della morte nella visione tibetana, molto intenso e sempre frequentatissimo; il prossimo sarà a Torino il 27, 28 e 29 aprile 2018, presso l’associazione Tonglen.
Io, ad esempio, ho paura della sofferenza che precede la morte, ma non della morte. Non ho paura di dissolvermi, anzi lo auspico. Perché non ne ho una visione né materialista né nichilista... Per altri però può essere più forte la paura della dissoluzione che non quella della sofferenza, come il tale a cui il Dalai Lama rispose: «Non ti preoccupare. Basta un raggio di sole per far evaporare una piccola goccia, ma se essa si unisce all’oceano cosa diventa? Diventa oceano. La tua coscienza circoscritta sarà... promossa ad oceano. Non vi è da rallegrarsi per questa promozione?».
Nella tradizione tibetana il momento della morte è studiato approfonditamente e lo si affronta in uno stato cosciente. Ma qui davvero attraversiamo un’altra porta. Una porta che attraverseremo nel prossimo numero de l’Eterno Ulisse.
Per approfondire
www.danielamuggia.it
Facebook/com/DanielaMuggiaTanatologa
[1] L’editto di Saint Cloud, emanato in Francia nel giugno del 1804 (rinnovando, di fatto, precedenti legislazioni austriache) fu esteso in Italia nel settembre del 1805. La legge imponeva che i cimiteri fossero posti lontano del centro abitato: un provvedimento non condivisibile nella nuova concezione del Foscolo, in quanto tesa ad allontanare vivi ed estinti, non favorendo la commemorazione di questi ultimi.
[2] Daniela Muggia è tanatologa, docente nel Master di II grado dell’Università Roma 3 in Accompagnamento empatico del morente. Pedagogia e Tanatologia (Anno Accademico 2012-13) in master di Cure palliative di diversi atenei italiani e nei corsi di Educazione Medica Continua in varie realtà ospedaliere; nel 2008 ha ricevuto il Premio Terzani per l'umanizzazione della medicina. Ѐ membro e tutor dell’équipe di accompagnamento di Tonglen di cui è presidente, ed è coautrice due libri, entrambi editi da Amrita: insieme alla psichiatra Emilia Costa ha scritto Giù le mani da Pierino: accompagnamento empatico dei bambini affetti da ADHD (Sindrome da iperattivtà e deficit di attenzione), e insieme al veterinario Stefano Cattinelli Tenersi per zampa fino alla fine. Accompagnamento empatico e cure palliative per gli animali alla fine della vita.
[3] Edito da Ubaldini.
[4] Cesare Boni, Dove va l'anima dopo la morte, Ed. Amrita.
[5] Gli studi su questa realtà sono raccontati dallo psichiatra francese Jean-Pierre Schnetzler, in Scienza e reincarnazione, Ed. Amrita, e trovate gli ultimi studi sulle NDE (Near Death Experiences, ossia 'esperienze di premorte') descritti dalla massima autorità mondiale sull'argomento, il dottor Pim Van Lommel, nel suo Coscienza oltre la vita - La scienza delle esperienze di premorte, sempre edito da Amrita.
Marzo 2020, intervista su Gente Sana Liberarsi della paura della morte Leggi tutto
Liberarsi della paura della morte
L’eccezionalità della situazione che stiamo vivendo ci porta, nostro malgrado, a riflettere sul tema della fine della vita, offrendoci un’opportunità di ridimensionare le angosce ad esso legata e di elaborare una forma mentis sana su quella che è l’unica certezza umana.
Ci stiamo abituando alla vicinanza della morte, ora che, veicolata dai bollettini quotidiani sulla diffusione della Covid-19 e sulle sue vittime, è diventata una presenza che entra prepotentemente nelle nostre case, nelle nostre vite e minaccia, più di quanto non sia mai successo prima, conoscenti, vicini, amici e persone a noi care, oltre a noi stessi? Sì e no. Sì, per forza, perché il virus è comunque sotto i riflettori e monopolizza l’attenzione dell’opinione pubblica. Eppure no, poiché nella società occidentale contemporanea, nella nostra cultura, l’argomento della caducità della vita è oggetto di un processo di rimozione collettiva, quando non addirittura di superstizione. Dipartita, scomparsa, sonno eterno, trapasso, decesso, fine, scomparsa… dal numero di termini che una lingua ha elaborato per evitare di usare la parola “morte” si misura la grandezza del tabù.
Ma perché oggi si ha tanta paura della morte? Risponde Daniela Muggia, tanatologa, esperta in accompagnamento empatico della fine della vita, autrice di vari libri, i cui seminari sull’argomento riscuotono molto successo anche in Canton Ticino.
“Quello della morte è un tema enorme. Siccome la paura ad essa legata è composita, bisogna scomporla per potersene liberare. Uno dei suoi molteplici aspetti è la paura di quello che viene dopo, o meglio, del fatto che dopo possa non esserci nulla. Noi ci identifichiamo con la nostra mente e con il nostro corpo. Proprio da questa doppia identificazione deriva il problema. Il corpo muore quando il cuore cessa di battere e la mente muore quando l’encefalogramma diventa piatto. Allora, cosa rimane, dopo?
Nella religione cristiana, l’anima…
Se una persona possiede la convinzione che un’anima immortale ci sopravviva, bene, questa è una sua risorsa, ma molti non si sentono al sicuro con questo concetto, quindi una visione diversa, più laica, può essere di sostegno.
Qual è questa visione?
Sebbene i nostri sensi siano limitati e ci suggeriscano che siamo una cosa a sé stante, che siamo separati da tutto il resto, la fisica quantistica ci dice il contrario. Ogni fenomeno individuale, quindi anche il nostro corpo, anche la nostra mente, è una manifestazione continuamente cangiante di un infinito campo di potenziale energetico, che si configura in una varietà di fenomeni, detiene ogni possibile informazione e in ogni suo punto conosce istantaneamente ciò che avviene in un qualsiasi suo altro punto.
La visione della scienza della morte del buddismo tibetano, che per molti versi si avvicina alle scoperte della fisica quantistica, descrive due livelli di realtà e due livelli di coscienza. Da un lato, la mente apparente e la realtà apparente, continuamente soggette alla trasformazione, all’instabilità, alla morte.
Dall’altro, la visione di una realtà più profonda, sia dei fenomeni che ci circondano sia della nostra coscienza, che si chiama "vera natura". Questa doppia visione ci introduce all’idea che ci sia un potenziale soggiacente alla realtà percepita dai sensi su cui sintonizzarci: un potenziale stabile e affidabile, poiché potenziale, appunto, ossia non manifesto, non legato a niente di materiale, non soggetto alla morte in quanto non è mai nato.
Se mi identifico con una parte limitata del tutto, con il corpo o la mente ordinaria, mi trovo nella scomoda posizione della goccia, che è evanescente, piccola, a rischio di evaporazione. Certo che allora temo la morte. Ma se riesco a identificarmi con l’oceano, allora le cose cambiano. Come disse una volta il Dalai Lama, bisogna vederla “come una promozione: da coscienza limitata di goccia a coscienza oceanica”. A quel punto, improvvisamente, la morte diventa una grande occasione, un evento per accedere a un livello di coscienza illimitato.
Interessante, ma non è un esercizio puramente intellettuale quello di convincerci di far parte di questo tutto, se tale concetto non appartiene alla nostra cultura?
Non direi che è solo un concetto: nella tradizione tibetana, molto pragmatica, ci si addestra a sperimentare in vita l’accesso alla coscienza oceanica, per non dipendere solo dalla fede per affrontare la morte.
Come?
Con la meditazione, che ha trovato ormai un grande spazio anche nella nostra società e la cui pratica è sempre più diffusa anche da noi.
Con l’addestramento meditativo si arriva a una consapevolezza priva di quei riferimenti oggettivi che la limitano: quando sono consapevole di un qualcosa, quel "qualcosa" limita la mia consapevolezza. Se invece raggiugo una consapevolezza priva di un oggetto, illimitata, consapevole cioè soltanto di sé, potenzialmente potrei essere consapevole di tutto.
Stranamente, non è raggiungere questo stato che è difficile, perché fa già parte di noi: abbiamo detto che è la nostra vera natura. Il difficile è mantenerlo. Se impariamo a sintonizzarci su questo sostrato comune, la "vera natura" che è alla base di ogni fenomeno, inclusi quei fenomeni cognitivi che sono le nostre menti, e se riusciamo, con l'addestramento, a rimanere lì, scopriamo una via di connessione con gli altri. Nella fattispecie, se questi "altri" sono prossimi alla morte, essendo le loro capacità empatiche molto accentuate in tale fase della vita, le informazioni empatiche ci giungono più facilmente.
Ecco, in questi giorni si sottolinea molto l’aspetto della solitudine di chi muore negli ospedali, impossibilitato ad avere il conforto della visita dei parenti.
E la stessa angoscia tocca i loro cari, che non possono comunicare più con loro né accompagnarli verso la fine della vita. Ultimamente ho avuto a che fare con molte persone in queste condizioni. E ho visto la differenza fra chi poteva, per sua conoscenza o perché guidato, accedere a una delle tecniche meditative che la tradizione tibetana chiama "della compassione" e chi no. Per i primi era di grande conforto sentirsi molto meno separati dai loro cari, pur non potendoli vedere o parlare con loro, o toccarli. E negli anni ho raccolto molte testimonianze delle persone che, alla fine della vita, avevano percezioni "allargate", diciamo così, riuscendo a "sentire" che qualcuno meditava per loro. A quanto pare, proprio per le caratteristiche del campo quantico, possiamo raggiungere una persona morente, anche se è lontana fisicamente. Nella tradizione buddista tibetana esiste in particolare una meditazione di accompagnamento alla morte che viene usata tanto di presenza quanto a distanza. Si chiama Phowa, termine che significa "trasferimento della coscienza". Una volta entrati in meditazione, si visualizza la persona che vorremmo poter accompagnare: la vediamo immersa nella luce infinita, calorosa, intelligente e buona del campo quantico. E se sappiamo quale sia il credo di questa persona, allora con grande rispetto visualizziamo l'immagine che per lei rappresenta la perfetta bontà, la perfetta giustizia, la perfetta generosità, e così via. In mancanza di questa informazione, visualizziamo una grande luce che impregna ogni cosa e l'avvolge, rappresentazione del campo quantico. Sapendo che è un'onda infinita di potenziale energetico (non di energia), senza direzionalità e onnipervadente, sapendo che ogni suo punto virtuale conosce in tempo reale ogni altro suo punto, possiamo dedurne che non possa che essere perfettamente buona: non essendoci nulla al di fuori di essa, se facesse qualcosa di cattivo sarebbe... autolesionista!
In questa meditazione, resa nota al grande pubblico in una versione semplice ed essenziale da Sogyal Rinpoche, autore de Il libro tibetano del vivere e de morire, edito in Italia da Ubaldini, una volta entrati in meditazione si visualizza nel centro del petto della persona per cui meditiamo una piccola sfera di luce, non più grande di un pisello, ma ugualmente intensa, e dotata della stessa qualità di infinita saggezza e bontà della luce che c’è intorno. Il passo successivo prevede che la luce visualizzata esternamente e quella interiore si fondano, e che questo "incontro" avvenga nella gioia: "come il ritrovarsi di madre e figlia", dice la tradizione. In questa unione gioiosa non c’è più un "dentro" e un "fuori", non c’è più confine.
Come visualizzare questa unione? Ai bambini suggerisco di immaginare di avere una gomma con la quale cancellare, a poco a poco, i limiti del corpo della persona per cui stanno praticando, in modo che divenga un tutt’uno con la luce esterna.
A proposito di bambini, molti di essi sono confrontati, in questi giorni, con la perdita di un nonno o una nonna. Come comportarsi con loro?
La cosa è complessa, e ogni caso meriterebbe una risposta a sé. Tuttavia il problema che c'è a monte è che, nella nostra società che teme la morte più di ogni altra cosa, si continua a voler separare artificiosamente i bambini dalla consapevolezza dell’unica cosa certa nella nostra e nella loro vita. La tragedia del Covid-19 può in tal senso venire colta come un’opportunità per ripensare questo atteggiamento così diffuso. Non possiamo continuare a nasconderci dietro a una margherita. I modi di spiegare la morte ai bambini sono diversi perché devono corrispondere all'età. Le onde cerebrali non sono tutte presenti fin dall'inizio: si sviluppano un po' per volta mentre si cresce, e per ogni età occorre usare una forma comunicativa che ne tenga conto. Più sono piccoli, più bisogna essere creativi e fantasiosi.
Loro sanno e capiscono, non sono stupidi: si tratta solo di adeguare il nostro linguaggio. La tanatologia moderna è nata con la dottoressa Kübler-Ross che, subito dopo la guerra, ebbe accesso al campo di concentramento di Majdanek: qui i bambini avevano inciso farfalle sulle assi delle pareti delle baracche, quasi come se sapessero che la morte è un'occasione di trasformazione.
È un errore distrarre i bambini da quello che succede e dall’idea della morte solo perché noi stessi ne abbiamo paura. Bisogna invece renderli protagonisti attivi dell’avvicinarsi a quello che può accadere in ogni famiglia e che sicuramente avverrà, se non adesso, in un altro momento. Essere "protagonisti attivi" è il contrario di subire. Per esempio, è noto che i rituali li confortano, li rassicurano... Anche ora, che forse vengono privati di nonni spariti negli ospedali, facciamo in modo che i bimbi compiano ogni giorno un piccolo rituale: mettere dei fiori freschi in un vaso, accendere un lumino per le persone che stanno morendo o per i loro cari che già se ne sono andati, oppure disegnare come immaginano sia ora la persona che non c’è più. O, cosa ancora più facile perché li conduce in uno stato in cui sentiranno meno la separazione, possiamo far fare loro un phowa. Esistono tante risorse a cui attingere: smettiamo di ricorrere alla perniciosa negazione, perché altrimenti creeremo un'altra generazione impreparata davanti alla sola cosa certa della vita.
E a proposito di non eludere il tema della morte: un morente, grande o piccolo, perlopiù sa bene di essere in punto di morte. Anche se i suoi cari continuano a far finta di nulla, vuoi perché non sanno da che parte affrontare l'argomento, vuoi perché forse ritengono così di incoraggiarlo. Questa negazione della morte ingenera invece, di solito, una dinamica dolorosa: il morente non ne parla per non addolorarli, regge loro il gioco, facendosi carico di quest'altra solitudine che non è riconducibile alla lontananza geografica, ma sottrae ugualmente a chi è alla fine della vita così come ai suoi cari un tempo prezioso, intriso di grande ricchezza affettiva, trasparenza e autenticità, nel quale spesso sboccia la guarigione delle ferite relazionali, traducendosi in una morte serena per chi muore e nell'elaborazione precoce del lutto per chi resta.
di Anna Martano Gricorov