Attività tanatologiche
Il perfezionamento in Tanatologia con Cesare Boni è avvenuto presso l'Università Federico II di Napoli nel 2003, a coronamento di una lunga formazione nel campo dell’accompagnamento empatico della sofferenza alla fine della vita, iniziata nel 1985 e svoltasi principalmente sotto la direzione di Sogyal Rinpoche, autore de Il libro tibetano del vivere e del morire, e con docenti del calibro di Christine Longaker, Marie de Hennezel e Frank Ostaseski. Ha fatto seguito, molti anni dopo, il diploma in terapia IADC (Induced After Death Communication) con Graham Maxley, nel 2015 per affrontare e sciogliere i lutti traumatici.
Dal 1991 inizia l’attività di volontariato in questo campo; l’approccio di accompagnamento che propone, pur derivato dalla tradizione tibetana (che peraltro ha conservato la maggiore tradizione tanatologica disponibile oggi nel mondo) non ha alcuna connotazione religiosa, e si distingue dall’accompagnamento proposto dalla relazione d’aiuto perché si fonda su uno stato di coscienza profondamente empatico, acquisito dall’accompagnatore tramite un addestramento meditativo, e sul presupposto, derivato dalla tanatologia tibetana, che il malato in fin di vita passi attraverso trasformazioni fisiche e mentali che favoriscono uno stato ugualmente empatico. Si tratta dunque di coltivare una modalità empatica di comunicazione, i cui frutti (visibili e misurabili) sono uno stato di maggiore quiete nel personale, nel malato e nei suoi famigliari; e, nelle ultime fasi della vita, una maggiore capacità di superamento del trauma della separazione dalla propria esistenza.
L’esperienza di formazione sopra descritta è confluita nell’Associazione Tonglen ODV per l’Accompagnamento empatico dei morenti e delle loro famiglie, di cui è co-fondatrice e presidente, e di cui ha progettato il complesso programma formativo, rivolto alla creazione di nuove équipe di volontari che affiancheranno l’équipe già esistente per almeno un anno.
Tonglen è un'associazione di volontariato senza scopo di lucro, apartitica e laica, sebbene ispirata agli insegnamenti del buddhismo tibetano. L'associazione Tonglen offre un servizio di accompagnamento empatico ai malati gravi e alle loro famiglie a partire dal momento in cui si riceve una diagnosi infausta. Organizza corsi di formazione nell'ambito dell'accompagnamento empatico della fine della vita per volontari, medici, infermieri e più in generale per chi desidera approfondire le tematiche legate alla sofferenza e al fine vita.
Fanno parte dell'associazione persone di ogni provenienza culturale o religiosa, che tuttavia si riconoscono una sensibilità comune di fronte a questa sofferenza fisica, psicologica, sociale e spirituale.
L'essenza dell'ispirazione che le motiva ad agire è basata su Il libro Tibetano del Vivere e del Morire di Sogyal Rinpoche.
Potete visitare il sito ufficiale dell'Associazione Tonglen qui.
Daniela Muggia ha messo a punto nel 2004 il metodo ECEL, Empathic Care of the End of Life (Accompagnamento Empatico della Fine della Vita), che da allora diffonde in tutto il mondo. Il termine “empatico” sta ad indicare che in questo tipo di accompagnamento si sviluppa nell’accompagnatore, con l’aiuto delle metodologie contemplative tibetane, uno stato di grande empatia eticamente orientata (cfr. studi molto recenti di Tania Singer). Questo approccio non ha nessuna appartenenza religiosa ma rispetta appieno quella del morente: tiene conto infatti della sua dimensione spirituale, presente anche nei laici sotto forma di una serie di valori assoluti positivi (per es., un’assoluta bontà, un’assoluta giustizia ecc.), e soprattutto della maggiore empaticità che insorge con l’avvicinarsi della morte, come spiegato dagli studi tanatologici tibetani.
Premio Terzani 2008. Trovi tutto lo studio qui.
ENTE PROPONENTE Azienda Ospedaliero-Universitaria di Parma
ACCOMPAGNAMENTO EMPATICO DELLA FINE DELLA VITA FONDATO SULLA TRADIZIONE TIBETANA IN CONTESTO OSPEDALIERO: DUE STUDI
A cura di Daniela Muggia.
Cos’è l’accompagnamento empatico della fine della vita e in cosa si distingue dalla relazione d’aiuto? Per comprendere che cosa sia l’accompagnamento spirituale (o empatico) è utile indicare che cosa non è. Non è, anzitutto, un accompagnamento religioso, per quanto faccia ricorso all’impiego di tecniche meditative empatiche sviluppate in seno alla vasta ricerca tanatologica condotta per secoli dal buddhismo tibetano; e non è nemmeno il tipo di accompagnamento che ci è più familiare, ossia l’approccio sviluppatosi in seno alla cosiddetta “relazione d’aiuto”.
In particolare, quest’ultima si fonda sulla consapevolezza della forza del curante e della debolezza del malato; nell’accompagnamento empatico, invece, il rapporto è paritetico, giacché si entra nella relazione come persone e non come ruoli, coinvolgendo quindi l’intero bagaglio di esperienze (debolezze, sconfitte e difetti compresi). Lo studio oggetto del presente documento dimostra che, lungi dall’essere incompatibile con i ruoli terapeutici, questo li rinforza.
La relazione d’aiuto è preziosa e costituisce forse la più alta manifestazione di compassione che l’Occidente abbia saputo esprimere. Tuttavia in essa sono oggettivamente presenti tre rischi relazionali fondamentali: 1. di sminuire inavvertitamente l’oggetto della relazione, in assenza di rapporto paritario; 2. di effettuare “proiezioni” (cioè ipotesi circa il bene del paziente), seguendo prassi codificate che necessariamente non tengono conto dell’unicità del momento, della persona, della relazione; 3. di dover creare e poi mantenere una barriera protettiva dalla sofferenza dell’altro, con il timore di effetti imprevisti se tale scudo dovesse cadere: il mantenimento di queste maschere si è rivelato una delle cause più potenti di burn-out, dal quale sono invece esenti gli accompagnatori empatici.
E il calo di stress è, come documenta questa ricerca, il primo frutto dell’applicazione di questo approccio a se stessi e agli altri.Soprattutto se esercitato nei luoghi che meglio hanno sviluppato la tecnologia medica della relazione d’aiuto, ossia gli ospedali, l’accompagnamento empatico può ovviare a tali rischi:
1. Il rapporto è paritetico, caratterizzato da uno stato empatico raggiunto dall’operatore mediante apposite tecniche meditative e dal paziente per le vie naturali (il morente ha una naturale inclinazione verso tale stato: un elemento che la medicina tibetana spiega nei particolari e che gioca a favore di entrambi): si stabilisce un senso di unione che trascende la dinamica abituale di soggetto, oggetto e azione che intercorre fra i due. Ne è prova il senso di gratitudine che si sostituisce al mero senso di soddisfazione, perché, oltre a dare, l’accompagnatore riceve molto, il solo limite in tal senso essendo rappresentato da quanto si è disposti a ricevere.
2. Basandosi su uno stato di apertura e di creatività congiunta tanto del malato quanto dell’operatore, l’accompagnamento empatico non è codificabile in procedure a priori, se non quelle meditative (che però l’accompagnatore applica perlopiù a se stesso, e raramente al paziente). In tale relazione si è “costretti” a rinnovare perennemente i propri atteggiamenti, a essere aperti e creativi in ogni istante: in assenza di procedure, niente “proiezioni” e assoluto rispetto del compagno di strada. 3. Accompagnare deriva dal latino cum panem: si tratta di “condividere lo stesso pane” del malato, d’essere lì per lui, disposti a esplorare la sofferenza insieme, perché mentre il morente percorre il suo inferno non lo percorra da solo. Se ascoltiamo empaticamente il malato, comprendiamo una quantità di cose che di solito ci sfuggono, sicché la nostra azione nel sostenerlo sarà necessariamente più adeguata. L’accompagnamento empatico non ha dunque alcuna connotazione religiosa: ma il rispetto per l’altro fa sì ch’egli venga accolto con tutta la sua storia personale, con tutto ciò che può dargli conforto e consolazione, ivi compresa la sua tradizione religiosa, se ne possiede una.