Febbraio 2006, per la rivista Interdipendenza l'articolo Del vivere e del morire, di seguito l'articolo scarica il PDF
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DEL VIVERE E DEL MORIRE
L’accompagnamento spirituale
delle persone gravemente malate
e delle loro famiglie
secondo la tradizione tibetana.
di Daniela Muggia
Il sostegno spirituale non è un lusso riservato
a una minoranza. È il diritto
fondamentale di ogni essere umano,
così come la libertà politica, l’assistenza sanitaria
e le pari opportunità”
(Sogyal Rinpoche).
L’accompagnamento spirituale si differenzia da ogni altro tipo di accompagnamento perché viene effettuato da uno stato altamente empatico, che qualcuno chiama “stato meditativo” e altri “contemplativo”, ossia diverso dallo stato ordinario da cui abitualmente agiamo.
Malgrado l’aggettivo “spirituale”, questo approccio non ha caratteristiche religiose nel senso in cui comunemente si intende. Semplicemente parte dal presupposto che l’uomo abbia, oltre a una dimensione fisica e una emotiva, anche una dimensione ove sia possibile oltrepassare la visione dualistica e separativista del mondo, considerata una sorta di distorsione percettiva.
Sono diversi i formatori in materia che prediligono questo approccio, in quanto si rivela talmente universale da diventare uno strumento rispettoso e utile per chiunque si trovi alle prese con la morte, la sua o quella di una persona cara, che si tratti di un laico o di persona credente, e quale che sia il suo credo. Fra gli antesignani dell’accompagnamento spirituale possiamo annoverare la compianta dottoressa Kübler-Ross e una serie di formatori ancora attivissimi ai giorni nostri: Christine Longaker, Cesare Boni, Frank Ostaseski, Marie de Hennezel, ciascuno dei quali ha dato un contributo inestimabile, in termini di esperienza personale e di creatività, all’evolversi dell’accompagnamento spirituale.
Ma soprattutto moltissimo si deve a Sogyal Rinpoche, autore di quella pietra miliare che è Il Libro tibetano del vivere e del morire (Ubaldini), e più in generale alla cultura tibetana che, da più di mille anni e più di qualsiasi altra cultura planetaria vivente, ha dedicato all’istante della morte una quan-tità di meticolosi studi e di ricerche. Per questo possiamo parlare, oggi, di un accompagnamento spirituale che si rivolge a tutti, ma che si ispira alla tradizione tibetana.
Forse la cultura tibetana è l’unica ad aver considerato la preparazione alla morte come un atto quotidiano, un atto di igiene mentale, per così dire, di quelli che durano per tutta la vita…
Gli occidentali invece, per esempio gli italiani, se ne vanno, ci lasciano, decedono, passano a miglior vita, trapassano, vanno nel mondo dei più, mancano all’affetto dei loro cari, lasciano questa valle di lacrime, tutt’al più si spengono… ma non muoiono mai. Pare, insomma, che siano immortali.
La morte, infatti, è il più potente tabù della nostra cultura. Eppure è la sola cosa certa da quando veniamo al mondo.
Interdipendenza è una rivista che ha del fegato.
Ci vuole coraggio per osare infrangere una volta per tutte questo tabù, e parlarne... Ma a chi mai si rivolge un discorso sull’accompagnamento alla morte? Al morente, direte voi. Già... ma quand’è che si diventa morenti?
In realtà, siamo tutti morenti dacché nasciamo: basti pensare alle cellule del corpo, del cervello… che cominciano a morire subito, dal primo vagito.
Se vi sentite a disagio, se toccate le chiavi e incrociate le dita, è perché ancora credete che l’unica certezza della nostra vita sia così gentile da fare per voi un’eccezione. Per essere chiari, e per dirla con le parole di Sogyal Rinpoche, “tutti abbiamo un piede nella fossa e l’altro su una buccia di banana”! Sicché quando si parla di “accompagnamento dei morenti”, non va dimenticato che il primo morente a cui possiamo fin d’ora portare aiuto siamo noi. E tanto per non restare a crogiolarci nelle teorie, passiamo ad un piccolo esercizio pratico.
Immaginate che tocchi a voi. Adesso. Ora. Il vostro medico vi comunica che avete ancora, diciamo, quarantacinque minuti da vivere.
Assurdo? Beh, consideratevi fortunati, perché di solito la morte non arriva facendosi annunciare.
Chi ogni giorno muore di morte improvvisa non ha tutto questo tempo per prepararsi.
Ci sentiamo crollare la terra sotto i piedi, non è vero? Quante cose lasciate a metà, quante cose irrisolte! Ho sentito un morente congratularsi con se stesso perché era più fortunato, con la sua malattia lenta e inesorabile, di quelli che muoiono in un incidente, o di morte improvvisa: lui aveva avuto il tempo, il tempo di sistemare tutte le faccende in sospeso, di accomiatarsi senza ansie dalla vita…
Spesso al disagio della morte, alla sofferenza fisica, al dover dipendere interamente da altri, spesso estranei, si aggiungono ondate di emozioni, ansie, paure, le cose non dette o non fatte, amori interrotti, rivalità irrisolte, gelosia, la rabbia di non poter controllare più nulla, neppure il proprio corpo… E, nella nostra cultura monca, si aggiunge anche il disagio di non poter neppure parlare di questa cosa enorme, che resta fino all’ultimo un’estranea e che tuttavia ci invade, intimamente e inevitabilmente, in ogni fibra del corpo e dell’anima.
Non se ne può parlare perché in Occidente siamo stati derubati della morte. È per questo, d’altronde, che la vita sembra aver perso per molti qualsiasi valore: quella che il Buddha chiama “la preziosa vita umana”, e che noi consumiamo correndo a vuoto, dietro a cose futili, che comunque non potremo portarci appresso “dall’altra parte”.
Quando la morte arriva, non c’è più tempo per prepararsi alla morte. E quando ancora siamo pieni di vita, siamo noi a non trovare mai il tempo. Ci culliamo nell’illusione che tutto perduri, ma appena ci soffermiamo un attimo a riflettere sull’impermanenza, anche soltanto per gioco, ecco che le nostre mille attività “irrinunciabili” riprendono la loro reale misura.
La nascita di ECEL
Grazie ad una sorta di osmosi che sta avvenendo in questo nostro villaggio globale, le scienze cognitive e soprattutto le neuroscienze stanno studiando lo stato meditativo da cui avviene l’accompagnamento spirituale ispirato al buddhismo tibetano, e ormai le sperimentazioni non lasciano più dubbi sul fatto che si tratti di uno stato mentale particolare, diverso dallo stato di veglia o di rilassamento, e sovrapponibile, con un certo esercizio, all’attività quotidiana, né sul migliora-mento che esso può offrire alla qualità di vita (e alla qualità di morte) della persona che ne usufruisce.
In Italia, come è noto, vi sono città in cui l’attenzione per la qualità di vita dei cittadini è decisamente maggiore, e Parma è una di queste. È interessante che proprio l’Azienda Ospedaliera di Parma, con circa tremila dipendenti, abbia attivato nel 2005 un corso di Accompagnamento Spirituale accreditato nell’ambito dell’Educazione Medica Continua... e che a poco a poco si affacci timidamente a questo approccio anche qualche ateneo italiano, prendendo le mosse dall’antesignana Università Federico II di Napoli, i cui tanatologi vengono orientati verso questo tipo di accompagnamento, diversamente, ad esempio, di quanto accade nel pur prestigioso ateneo di Bologna, fedele nel tempo all’approccio psicologico eminentemente occidentale.
Si sviluppano anche le prime équipe di accompagnatori volontari, come quella (piccola, per il mo-mento) dell’Associazione Tonglen che opera in provincia di Torino.
una rubrica di corrispondenza con i lettori sul tema della morte e della sofferenza.
Settembre 2007, sulla rivista Shiatzu News l'articolo L’accompagnamento spirituale delle persone gravemente malate e delle loro famiglie secondo la tradizione tibetana, di seguito l'articolo scarica il PDF
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Daniela Muggia: L’accompagnamento spirituale delle persone gravemente malate e delle loro famiglie secondo la tradizione tibetana, in “Shiatzu News”, settembre 2007
“Il sostegno spirituale non è un lusso riservato a una minoranza. È il diritto fondamentale di ogni essere umano, così come la libertà politica, l’assistenza sanitaria e le pari opportunità” (Sogyal Rinpoche).
L’accompagnamento spirituale, indipendentemente dalla sua matrice tibetana o più semplicemente orientale, si differenzia da ogni altro tipo di accompagnamento perché viene effettuato da uno stato altamente empatico che qualcuno chiama “stato meditativo” e altri “contemplativo”, ossia diverso dallo stato ordinario da cui abitualmente agiamo.
Malgrado l’aggettivo “spirituale”, questo approccio non ha caratteristiche religiose; parte invece dal presupposto che l’uomo abbia, oltre a una dimensione fisica e una emotiva, anche una dimensione (spirituale, appunto) ove sia possibile oltrepassare la visione dualistica e separativista del mondo, considerata una sorta di distorsione percettiva. Un approccio che si rivela talmente universale da diventare uno strumento rispettoso e utile per chiunque si trovi alle prese con la morte, la sua o quella di una persona cara, che si tratti di un laico o di persona credente, e quale che sia il suo credo. Fra gli antesignani dell’accompagnamento spirituale possiamo annoverare la compianta Dottoressa Kübler-Ross, considerata la fondatrice della tanatologia moderna, Cesare Boni, che ci ha lasciati da poco, e una serie di formatori ancora attivissimi ai giorni nostri: Christine Longaker, Frank Ostaseski, Marie de Hennezel, ciascuno dei quali ha dato un contributo inestimabile, in termini di esperienza personale e di creatività, all’evolversi dell’accompagnamento spirituale.
Ma soprattutto moltissimo si deve a Sogyal Rinpoche, autore di quella pietra miliare che è il Libro tibetano del vivere e del morire (Ubaldini), e alla cultura tibetana che, da più di mille anni e più di qualsiasi altra cultura planetaria vivente, ha dedicato all’istante della morte una quantità di meticolosi studi e ricerche, costituendo di fatto il più completo corpus tanatologico disponibile.
Per questo possiamo parlare, oggi, di un accompagnamento spirituale che si rivolge a tutti, ma che si ispira alla tradizione tibetana.
Va detto che la cultura tibetana è l’unica ad aver considerato la preparazione alla morte come un atto quotidiano, un atto di igiene mentale, per così dire, di quelli che durano per tutta la vita...
Gli italiani, invece, se ne vanno, ci lasciano, decedono, passano a miglior vita, trapassano, vanno nel mondo dei più, mancano all’affetto dei loro cari, lasciano questa valle di lacrime, tutt’al più si spengono... ma non muoiono mai. Pare, insomma, che siano immortali.
La morte, infatti, è il più potente tabù nazionale. Eppure è la sola cosa certa da quando veniamo al mondo.
Ci vuole coraggio per osare infrangere una volta per tutte questo tabù, e parlarne... Alcuni anni fa ho tenuto per Interdipendenza una rubrica sull’accompagnamento della morte. A chi poteva mai rivolgersi? Ai morenti, direte voi. Già... ma quand’è che si diventa morenti? In realtà, siamo tutti morenti dacché nasciamo: basti pensare alle cellule del corpo, del cervello... che cominciano a morire subito, dal primo vagito. Se vi sentite a disagio, se toccate le chiavi e incrociate le dita, mentre leggete queste righe, è perché ancora credete che l’unica certezza della nostra vita sia così gentile da fare per voi un’eccezione.
Per essere chiari, e per dirla con le parole di Sogyal Rinpoche, “tutti abbiamo un piede nella fossa e l’altro su una buccia di banana”!
Sicché quando si parla di “accompagnamento dei morenti”, non va dimenticato che il primo morente a cui possiamo fin d’ora portare aiuto siamo noi. E tanto per non restare a crogiolarci nelle teorie, passiamo ad un piccolo esercizio pratico.
Immaginate che tocchi a voi. Adesso.
Ora. Il capitano del volo su cui vi siete imbarcati convinti di partire per una vacanza vi comunica che l’avaria è gravissima, che fra poco l’aereo si avviterà e non vi saranno atterraggi di emergenza possibili.
avete ancora, diciamo, 5 minuti da vivere. Assurdo? Beh, consideratevi fortunati, perché di solito la morte non arriva facendosi annunciare. Chi ogni giorno muore di morte improvvisa non ha tutto questo tempo per prepararsi.
Ci sentiamo crollare la terra sotto i piedi, non è vero? Quante cose lasciate a metà, quante cose irrisolte!
Ho sentito un morente congratularsi con se stesso, perché era più fortunato, con la sua malattia lenta e inesorabile, di quelli che muoiono in un incidente, o di morte improvvisa: lui aveva avuto il tempo, il tempo di sistemare tutte le faccende in sospeso, di accomiatarsi senza ansie dalla vita...
Spesso al disagio della morte, alla sofferenza fisica, al dover dipendere interamente da altri, spesso estranei, si aggiungono ondate di emozioni, ansie, paure, le cose non dette o non fatte, amori interrotti, rivalità irrisolte, gelosia, la rabbia di non poter controllare più nulla, neppure il proprio corpo...
E, nella nostra cultura monca, si aggiunge anche il disagio di non poter neppure parlare di questa cosa enorme, che resta fino all’ultimo un’estranea e che tuttavia ci invade, intimamente e inevitabilmente, in ogni fibra del corpo e dell’anima.
Non se ne può parlare perché in Occidente siamo stati derubati della morte. È per questo, d’altronde, che la vita sembra aver perso per molti qualsiasi valore: quella che il Buddha chiama “la preziosa vita umana”, e che noi consumiamo correndo a vuoto, dietro a cose futili, che comunque non potremo portarci appresso “dall’altra parte”.
Quando la morte arriva, non c’è più tempo per prepararsi alla morte. E quando ancora siamo pieni di vita, siamo noi a non trovare mai il tempo. Ci culliamo nell’illusione che tutto perduri, ma appena ci soffermiamo un attimo a riflettere sull’impermanenza, anche soltanto per gioco, ecco che le nostre mille attività “irrinunciabili” riprendono la loro reale misura.
Genesi di ECEL Accompagnamento empatico alla fine della vita
Grazie ad una sorta di osmosi che sta avvenendo in questo nostro villaggio globale, le scienze cognitive e soprattutto le neuroscienze stanno studiando lo stato meditativo da cui avviene l’accompagnamento spirituale ispirato al buddhismo tibetano, e ormai le sperimentazioni non lasciano più dubbi sul fatto che si tratti di uno stato mentale particolare, diverso dallo stato di veglia o di rilassamento, e sovrapponibile, con un certo esercizio, all’attività quotidiana, né sul miglioramento che esso può offrire alla qualità di vita (e alla qualità di morte) della persona che ne usufruisce. In Italia, come è noto, vi sono città in cui l’attenzione per la qualità di vita dei cittadini è decisamente maggiore, e Parma è una di queste. È interessante che proprio l’Azienda Ospedaliera di Parma, con circa 3000 dipendenti, abbia attivato per prima, nel 2005, un corso di Accompagnamento Empatico accreditato nell’ambito dell’Educazione Continua in Medicina, cui molti altri corsi hanno fatto seguito; e che a poco a poco si affacci timidamente a questo approccio anche qualche ateneo italiano, prendendo le mosse dall’antesignana Università Federico II di Napoli, i cui percorsi di tanatologia post lauream hanno, per anni, orientato gli studenti verso questo tipo di accompagnamento, diversamente, ad esempio, di quanto accade nel pur prestigioso ateneo di Bologna, fedele nel tempo all’approccio psicologico eminentemente occidentale. Ultimo in ordine ci arrivo, ma primo per la completezza della formazione offerta, il Master di secondo grado in “Pedagogia e Tanatologia. L’Accompagnamento Empatico della persona alla fine della vita”, di Roma 3, nel 2013.
Si sono parallelamente sviluppate anche le prime équipe di accompagnatori volontari, come quella dell’Associazione Tonglen che opera in provincia di Torino.
L’approccio occidentale e quello orientale sono certamente uniti nel desiderio di alleviare le sofferenze dell’altro, ma divergono non poco metodologicamente. Se l’approccio occidentale parte da un insieme di casistiche e di nozioni acquisite da applicare a seconda del caso, per cui l’accompagnatore diventa “l’esperto” (insomma: tale caso, tale rimedio, un po’ come l’aspirina), l’approccio orientale parte dal fatto che l’accompagnatore non ha nulla da insegnare al morente, ma ha il ruolo di far scaturire nell’altro uno stato quieto, in cui, placate le emozioni, egli sarà eminentemente creativo e la sua stessa mente sarà capacissima di sapere cosa è meglio per lui: l’esperto, insomma, è e rimane il diretto interessato, una volta riportato in contatto con la sua profonda e saggia natura.
Ricordo con commozione un sacerdote cattolico che, ricorrendo a un riferimento etimologico, volle spiegare in che cosa questo accompagnamento di matrice buddhista si differenzi da altri approcci.
Disse che l’accompagnamento spirituale ispirato al buddhismo tibetano è fedele alla radice latina della parola “accompagnare”, che deriva da cum panem, nel senso che agendo da uno stato di profonda quiete e compassione, questi accompagnatori aiutano il morente a placare le emozioni e riconoscono nell’altro una saggezza innata, in questo condividendo il suo pane, senza imporre il proprio; e nella morte vedono l’opportunità specialissima che tale saggezza ha di manifestarsi.
Vi è, in questo approccio, un immenso rispetto dell’altro e della sua unicità, che deriva dalla convinzione, oggi supportata dalla visione della fisica quantistica, che ciascuno di noi sia dotato, già qui ed ora, di una perfetta e onnisciente natura, sebbene essa sia temporaneamente velata dalle emozioni, a loro volta dovute al fatto che non siamo consapevoli di questa nostra vera natura, per ora forse intuita a sprazzi, ma non pienamente riconosciuta.
L’indicazione della fisica quantistica è che l’universo possa essere colto sia come un insieme di particelle sia come campo quantico, un’onda infinita, portatrice di informazioni. E a queste informazioni si deve poter avere accesso. Quello che pare essere, di primo acchito, un discutibile presupposto mistico, trova uno straordinario alleato nella fisica quantistica: al CERN di Ginevra, nel 1998, Gisin fece un esperimento che diede nuovo impulso a quella materia e aprì nuove prospettive di indagine. Riuscì a separare due fotoni e a spedirli, lungo delle fibre ottiche, a 18 km di distanza l’uno dall’altro.
Al punto d’arrivo di ciascuna fibra ottica il fotone poteva scegliere fra due percorsi, uno breve e uno più lungo, e Gisin osservò che i due fotoni si muovevano armoniosamente, operando la stessa scelta simultaneamente. Su cosa viaggiava l’informazione? Certamente non sulla luce, che nel tempo in cui l’informazione tra i due fotoni copriva i 18 km che li separavano percorreva 3 centimetri soltanto... A Gisin non restò allora che avanzare l’ipotesi che essi fossero compartecipi di una realtà fondamentale comune, un’onda di energia, e come tale illimitata, presente ovunque simultaneamente; non so se osò aggiungere che quell’onda doveva possedere anche una natura cognitiva, l’atto cognitivo essendo, per l’appunto, riassumibile nel dare e ricevere informazioni.
L’approccio scientifico va a braccetto con il buddhismo tibetano, che ha la forza di non avere dogmi e di rimettersi in gioco ad ogni nuova scoperta. Se la medicina tibetana ha abbandonato la propria embriologia riconoscendo che quella occidentale è più precisa, accade però anche che la scienza occidentale debba a volte abbandonare i suoi dogmi e riconoscere che, per le sue vie misteriose, il Buddha – e con lui i grandi mistici della Terra, che di fatto trascendono le tradizioni stesse che li hanno generati – aveva ragione.
Sia l’accompagnato che l’accompagnatore sono compartecipi di una realtà fondamentale, empatica, non diversamente dai fotoni di Gisin. Ma questo non li rende consapevoli, o perlomeno non sempre, di questo loro grande tesoro...
Questa “vera natura” è uno stato che, se non fosse che il buddhismo aborre le definizioni teistiche, ritenendo come il giudaismo che il nome limiti la cosa, potremmo definire“divino”... perché illimitatamente presente, dunque onnipresente, infinitamente cognitivo, dunque onnisciente, e base di ogni possibile manifestazione, dunque onnipotente.
I grandi mistici del mondo e i fondatori delle grandi religioni l’hanno descritto in molti modi, ma perlopiù gli approcci che ci riportano le loro agiografie sono due: un improvviso stato di comunione mistica, apparentemente “non causato”, oppure uno stato cercato, voluto, provocato a suon di esercizi yogici, o di preghiera, o di meditazione... In tal caso ne emerge l’indicazione che a quello stato ci si può avvicinare progressivamente, come levando via, uno dopo l’altro, strati e strati di nuvole che offuscano il sole; e se agiamo da lì, quale che sia il nostro “lì” relativamente parlando, la qualità del nostro agire è visibilmente migliore:
- la qualità del nostro ascolto, per esempio. La nostra mente è più calma, diventa totalmente ricettiva, non fa più proiezioni su “quello che è bene per l’altro”. È una qualità di ascolto che avviene anche in assenza di parole, caso quanto mai frequente quando si ha a che fare con malati gravi, o con persone che, in una società multietnica, non hanno dimestichezza con la nostra lingua;
- la parola (oppure il silenzio) viene da uno stato non ordinario, e improvvisamente scopriamo che sappiamo cosa dire e quando dirlo; anche il silenzio cessa di imbarazzarci; - l’azione è più adeguata del solito, anche quando la situazione per noi è del tutto nuova e non possiamo ricorrere a nessuno dei casi precedenti, dovutamente archiviati nella memoria della mente ordinaria.
(...)
Ora, noi non possiamo pretendere di entrare in questo “stato speciale”, quale che esso sia, quando veniamo chiamati d’urgenza al capezzale di uno sconosciuto, o quando ci troviamo nella tempesta emozionale provocata dalla perdita di una persona cara o da quella, ancora maggiore, dell’imminenza della nostra morte.
Sarebbe un po’ come pretendere di fare i quattrocento a ostacoli a tempo di record, senza esserci allenati. Qual è il segreto, allora?
L’addestramento, ci dicono in coro tutte le scuole di meditazione tibetane. Mentre l’occidente stravedeva per i suoi palestratissimi guerrieri, fra le alte vette himalayane si andava affermando una sorta di “body-building della coscienza”, lo stesso che ha consentito di recente ai tibetani torturati dagli invasori cinesi di portare oggi sui corpi i segni di quelle torture, ma di avere la mente intatta.
Gli psichiatri occidentali che li hanno esaminati ci dicono che non vi è traccia del trauma da persecuzione, quello, insomma, che ha dolorosamente segnato più di una generazione di ebrei scampati alle atrocità della Shoà. E questo ha destato, in molti studiosi ebrei, il desiderio di confrontarsi con loro, di scoprire il... segreto dei tibetani. Sono avvenuti molti incontri tra le due culture, e a quanto pare hanno dato qualche frutto. Uno di questi incontri è stato organizzato a Torino nel 2008, per la Giornata della memoria.
I tibetani hanno detto agli ebrei: “Insegnateci a non dimenticare”.
E gli ebrei hanno detto ai tibetani: “insegnateci a meditare”.
In meditazione, la mente pian piano impara a non rimanere aggrappata alle percezioni esterne e ai pensieri, a lasciarli venire e andare, senza interferire con essi, senza continuamente farsene sviare. In questo stato percepiamo una qualità di apertura dove non vi è posto per concetti come il tuo e il mio, o per pensieri di separazione. È un po’ come se la famosa goccia nell’oceano, smettendo per un attimo di pensarsi in termini di goccia individuale, si rendesse conto d’essere in realtà una con l’oceano, e accedesse improvvisamente alla coscienza dell’oceano... uno stato in cui sorge spontanea la compassione per tutte le altre gocce, che pur essendo oceano se ne stanno allo stretto, entro i limiti del goccia-pensiero... Sorge, dunque, la compassione per l’altro, ma anche quella per noi stessi, per tutte le volte che pensiamo da goccia, per tutte le volte che vediamo la separazione invece di ciò che ci unisce, per quando giudichiamo suddividendo ogni cosa secondo la dualistica categoria del buono e del cattivo, per cui tutto diventa oggetto di ossessivo desiderio o di altrettanto ossessiva repulsione.
Da questo stato, o perlomeno da quanto di più vicino a questo stato riusciamo a raggiungere, l’accompagnatore è più efficace e il morente muore meglio.
«La morte - dice Jigmela Rinpoche in Passaggio tra due vite (Amrita) - è un momento privilegiato, è la grande occasione per dissolvere questa percezione limitata, l’ego, in favore di un riassorbimento definitivo nella natura di Buddha», il che equivale a dire che è l’occasione per dissolvere il nostro crederci una goccia mentre in realtà siamo l’oceano.
Accade ben di rado che si possa insegnare al morente la meditazione: d’altronde, chiunque sia stato accanto ad una persona che si avvicina alla fine della vita confermerà che progressivamente la sua percezione del mondo (quella stessa percezione responsabile del crederci separati dal resto) si fa spontaneamente meno “solida”, con il vacillare degli input sensoriali che modellano la nostra abituale visione dualistica del mondo, quella che mi piace chiamare il “goccia-pensiero”... E a poco a poco insorgono da soli certi stati che potremmo definire, senza timore di sbagliarci, meditativi.
Insomma, l’accompagnatore spirituale coltiverà in proprio la meditazione, per agire da “lì”, senza bisogno di “esportarla”, con una forzatura, nell’altro.
Se ci siamo allenati bene e se la mente è tranquilla, sia quando assistiamo un morente sia quando il morente siamo noi, sapremo anche riconoscere, dicevo, le tappe progressive che annunciano il momento tanto atteso, quello in cui la nostra vera natura ci appare in tutta la sua perfezione, il momento in cui non bisogna essere distratti...
«La vita – diceva Oscar Wilde – è ciò che succede mentre noi pensiamo ad altro»... Ecco, bisogna che questo non accada, almeno durante la morte! Ma è evidente che se questa è stata la regola in vita, sarà quest’abitudine a prevalere anche nel momento della morte. Ecco perché l’addestramento della meditazione è così necessario!
Queste “tappe progressive” annunciatrici del “momento-clou” sono un altro pezzo di bravura dei tibetani; nessun altro ha descritto con tanta precisione il progressivo dissolversi delle energie che circolano nel corpo del morente, nessun altro ci insegna ad osservare queste tappe dal di fuori, quando assistiamo un morente, e dal di dentro, quando il morente siamo noi, e a calibrare il nostro comportamento di conseguenza in ambedue i casi.
Oggi, con il lento affermarsi della medicina palliativa che mira alla qualità più che alla quantità della vita del paziente terminale, l’approccio tibetano ha trovato un nuovo alleato, e ci si incomincia a rendere conto in ambiente medico che i famosi “protocolli” forse andrebbero riesaminati.
Idratare un malato durante la fase terminale che i tibetani chiamano “dissoluzione dell’acqua”, per esempio, è qualcosa che mai essi farebbero; e tuttavia avviene regolarmente in ospedale. Ma i medici palliativisti sostengono ormai da un certo tempo che la disidratazione è uno stato da non alterare, una sorta di analgesia spontanea...
I tibetani ci sono arrivati a forza di osservazioni avvenute non solo dallo stato ordinario, ma anche – e forse soprattutto – dallo stato empatico, meditativo o contemplativo che dir si voglia. Sarebbe davvero splendido se il personale curante dei nostri ospedali sapesse non solo che cosa osservare, ma anche come osservare...
Un posto di rilievo, in tutto questo, va dedicato alla famiglia del morente. È evidente che anche qui ci troviamo in presenza di dolore, di smarrimento, di cose che queste persone rimpiangeranno di aver detto e fatto, o di non aver detto e di non aver fatto.
Anch’esse vanno sostenute, accompagnate, a volte incoraggiate a risolvere unilateralmente vecchie ruggini, per non disturbare il morente e sgombrare il campo da tensioni inutili e dannose.
Il mio primo accompagnamento è stato il più difficile di tutti. Si trattava di mio padre, ed era estremamente difficile mantenermi in uno stato relativamente non ordinario, nel quale sapevo che il dolore avrebbe lasciato il posto alla compassione e dal quale sarei stata più utile. Quando sentivo arrivare l’ondata di dolore, il senso di impotenza, di perdita, mi rifugiavo nella meditazione affinché tutte queste emozioni non mi sommergessero, ma soprattutto non volevo che egli ne fosse sommerso. Abbiamo avuto la fortuna di poter assistere mio padre in casa: giudicati inguaribili come accadde a lui, “scaricati” dall’ospedale, molti non hanno la fortuna di poter morire in casa loro, circondati da un ambiente che li faccia sentire a loro agio e dall’amore dei familiari. Per questo, d’altronde, è nato l’HOSPICE MOVEMENT, dapprima nei paesi anglofoni, e oggi presente, sia pure con una certa fatica, anche in Italia.
Di Hospices, ossia di case di accoglienza per i malati terminali, ve n’è un certo numero nel nostro paese, ma molti di essi hanno personale non sufficientemente addestrato, e altri non hanno recepito lo spirito che ha animato gli hospice “ab origine”, che ne fa dei luoghi di straordinaria (e perfino gioiosa, a volte) accoglienza, dove la medicalizzazione è bassissima e dove le cure palliative consentono di avere fino all’ultimo una qualità di vita dignitosa, con il dolore sopito da antidolorifici efficienti, che lasciano la mente lucida per affrontare al meglio anche il passaggio della morte, sostenuti in questo dagli accompagnatori volontari, adeguatamente preparati e integrati nell’équipe sanitaria. Le cure palliative tanto sbandierate in Italia nella riforma, lasciano perlopiù insoddisfatti tanto i medici palliativisti quanto i malati: in realtà richiedono ancora frequenti ed estenuanti rinnovi delle ricette per gli antidolorifici, la cui gamma è praticamente ridotta alla morfina. Basti dire che nei paesi anglosassoni se ne usano venti volte tanto solo nelle strutture ospedaliere... un discorso che ci porta lontano, a dibattere delle radici culturali del “dolorismo” italico...
Per tornare a quel mio primo accompagnamento, la famiglia si diede una regola: non saremmo entrate, la mamma ed io, nella camera di papà se non con la mente calma, o perlomeno nel nostro stato migliore, quale che esso potesse essere al momento. Mio padre se n’è andato in pace, e non ha avuto bisogno di morfina in quantità industriali, come invece avevano profetizzato i medici. Ad un certo punto è entrato in una dimensione di grande quiete, dalla quale descriveva una realtà che noi non vedevamo. Oggi, a distanza di tanti anni, ricordo che passò in modo assolutamente evidente attraverso tutte le fasi delle dissoluzioni di cui parlano i tibetani: posso dire che fu... una morte “da manuale”, come a facilitare il compito di un’accompagnatrice tanto acerba inesperta e frastornata. Quando le emozioni ci assalivano, la mamma ed io andavamo altrove per lasciare intatta quella quiete. Per certi versi sembrava una danza lentissima tra noi, l’una presente e sorridente e l’altra a lottare con le lacrime in cucina, a turno. Ma quando assistevamo papà eravamo al meglio di quanto potessimo essere, ed è per questo che non abbiamo rimpianti. La mamma fu davvero coraggiosa. La loro era una di quelle unioni come non se ne vedono più tante, durate saldamente per quarant’anni: vi lascio immaginare quanto le costasse privarsi degli ultimi istanti a fianco del compagno di una vita solo perché sentiva che le emozioni avrebbero prevaricato, e l’avrebbero disturbato nel momento delicato del passaggio. Questo è quello che io chiamo amore incondizionato!
Personalmente, negli ultimi giorni, avevo un tarlo che mi rodeva. C’erano argomenti tabù con mio padre, di quelli che non si potevano affrontare. La morte era uno di quelli, e l’altro, più per rispetto della sofferenza che avrebbe causato che non per suo preciso volere, era quello delle persecuzioni razziali: mio padre era ebreo.
Sapevo benissimo che gli ultimi giorni di un morente non vanno turbati con ricordi spiacevoli, e che anzi è vivamente consigliato indulgere con lui nei ricordi dei momenti belli, quelli in cui si è condivisa la gioia; e tuttavia mi chiedevo se non se ne stesse andando carico di rancori, e se ci fosse un modo per trasformarli in una sorta di perdono. Così mi ingegnai per chiedergli qualcosa che avrebbe violato entrambi gli argomenti tabù. Ci riuscii grazie ad un tremito violento che era comparso e che lo infastidiva a tratti; oggi, semplicemente, riconoscerei semmai la tappa della “dissoluzione del fuoco”, una fase in cui la morte è davvero imminente, e sarei il custode della quiete del morente... ma allora ero troppo inesperta, troppo sottosopra... gli dissi, forzando un po’ le cose, che a volte in momenti delicati della vita ci possono essere ricordi spiacevoli, cose non digerite che riemergono sotto forma di tensioni fisiche... E gli rammentai un paio di persone poco piacevoli che aveva incontrato nella sua vita; poi lasciai cadere, in coda a quei pochi nomi, anche quello di Hitler. Lo feci con un’apparente noncuranza che ora mi sembra così maldestra, così ridicola!
La risposta che mio padre mi diede fu per me il suo testamento spirituale, insieme ad alcuni altri principi che sono diventati le linee-guida della mia vita. Mi disse: “Io non sono uomo da portare rancore. Hitler è l’uomo più ignorante che io abbia mai incontrato”. Dallo stato di pace che aveva raggiunto, di quale ignoranza parlava, se non dell’ignoranza della propria vera natura?
Se ne andò nella pace permeata da quel perdono profondo, da quella manifesta compassione incondizionata, proveniente non certo dallo stato di goccia, ma da quello di oceano.
La quiete generata dal processo di morte di mio padre rimase, palpabile, anche dopo che ebbe lasciato il corpo. Ricordo le parole del medico, chiamato a constatare il decesso. Parlava piano, come se non volesse disturbare; diceva “Sembra d’essere in un tempio!” E così, come in un tempio, quiete e silenziose, rispettose di qualcosa che percepivano forse senza saperla definire, vidi comportarsi tutte le persone che vennero in seguito a rendergli omaggio.
Io credo che tutti abbiano diritto a pari rispetto, a pari dignità, a pari amore, affinché possano approfittare della morte per fare un balzo verso la realizzazione della loro vera natura. Per questo ho cominciato ad accompagnare i morenti.
Sono consapevole di aver fatto errori, sia accompagnando mio padre che accompagnando altre persone; per fortuna, la tradizione tibetana è così potente, così solidamente stabile e fruttifera, che essi si sono come stemperati nell’immensa completezza di un insegnamento che non lascia nulla al caso, concedendo tuttavia così tanto spazio alla nostra creatività quando essa viene dal nostro stato migliore.
È talmente meticolosa, questa tradizione, da preoccuparsi che anche in chi accompagna non si crei attaccamento al concetto di aver accompagnato bene, una sorta di pernicioso autocompiacimento che finirebbe per rendere ancora più solida l’illusoria parete che separa la goccia dall’oceano.
Per questo, a conclusione di ogni azione che possa essere annoverata fra le cause positive, il buddhismo tibetano ci offre un ultimo, piccolo, capolavoro: la “dedica” o “devoluzione” delle “cause positive” che, infallibilmente, ogni azione positiva genererà. Se l’azione è stata condotta con una motivazione buona, buoni saranno i frutti. Perché allora tenerli per sé? “Possano queste cause positive favorire in tutti gli esseri senzienti il conseguimento dell’onniscienza dell’Illuminazione; possano vincere l’avversario (la negatività e l’illusione) ed essere infine liberi dall’oceano del Samsara incessantemente agitato dalle onde della nascita, della vecchiaia e della morte!”
Daniela Muggia
- Nel 2011, un articolo sui “lutti non riconosciuti” è uscito sul primo numero dell’anno della rivista Re Nudo.
- Nel 2013, la stessa rivista ha pubblicato sul numero di novembre-dicembre un suo articolo dedicato al metodo di Accompagnamento empatico della fine della vita.
A partire dal 2014, a seguito della pubblicazione di The Impact of Empathy, Daniela Muggia è invitata a scrivere alcuni articoli per la stampa americana, tra i quali:
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- Conscious dying: How to say Goodbye with Loving Awareness (in Edge Magazine, Dicembre 2014)
https://www.edgemagazine.net/2014/12/conscious-dying-loving-awareness/ scarica il PDF
- Conscious dying: How to say Goodbye with Loving Awareness (in Edge Magazine, Dicembre 2014)
Conscious dying: How to say Goodbye with Loving Awareness
By Daniela Muggia - December 1, 2014
There are many goodbyes at the end of a life. Sometimes you have to say goodbye to a dying friend, sometimes you haven’t said goodbye and your bereavement takes a long time, or it’s your turn to say goodbye to those who remain.
In fact, there isn’t any difference, as this Zen story tells us:
“A student asks his Zen master what the Buddha taught about how to care for others.
“The master answers: ‘What others are you talking about? Care for yourself!’
“The student insists: ‘Ok, then, how can I care for myself?’
“‘By caring for others.'”
The Empathic Care of the End of Life method refers to the point of view of quantum physics:
Any phenomenon appearing to be separate, independent and permanent is, in fact, the opposite: it is part of the quantum field from which it “collapses,” under the combined effect of all the universal strengths on this very phenomenon in each instant. The causal strengths of the universe are immeasurable and continuously changing, therefore, all phenomena are unstable and cannot last.
Hence, we die not once but continuously: in the two minutes it takes to read this page, you will have lost more than 104 million cells.
Information and awareness
Our mind is part of the “knowing” aspect of the quantum field, which many scientists call “information field.” As part of it, we are constantly fed information, but we are rarely aware of it. In turn, we feed the field, but — again — we are rarely aware of it.If we want to bring awareness to this process, we need to train in becoming aware of things of which we are usually unaware.
Meditation can be used for this. When you train in becoming aware of your breath — usually an unconscious activity — you develop a special part of your brain that, in turn, will make you be mindful of other things of which you are usually not mindful.
The sadness inherent in a goodbye is reduced when both are aware of all the above. Then, you experience the other and yourself as part of a Whole, and that the sad sense of separation is mainly due to the limitations of our perceptions.
The way you are
Now, remember that the dying are already empathic: death acts as a training for them. They feel your state of mind directly, as children do. It means the way you are is more important than what you say or do.If you want to help, be peace. Listen to them from a cultivated empathic state where you feel less separated from them; then, a direct communication becomes possible. It will work even when the person who dies cannot hear you anymore. No projection. Total understanding. A way of listening that is direct, deep. Experience directly that we are not just these impermanent bodies and minds, but also part of the universal consciousness of the quantum field. If you experience this, won’t your fear of death disappear?
From both sides, the goodbye will be enriched by love and awareness, and it will be far less painful.
In this empathic relationship, there is no one who gives while the other receives, no one who cares while another is being cared for, no one who knows while the other doesn’t. Once you establish yourself in this cultivated empathic state, the strength, the beauty, the greatness of the other is revealed. You won’t need to look into your resources for something to give the other. You will help them by exalting theirs. You won’t feel satisfied, but grateful. The caregiver and the person dying will really be companions to each other: from the latin CUM PANEM, “sharing the same bread.”
How, then, do we train our mind for this approach? Tibetan thanatology (the science of death and dying) gives us a complete training on transforming our mind, and it has been rigorously tested by Western neuroscientists.
We know now that a certain part of the brain can be developed by a certain kind of meditation. We also know that direct knowledge (empathy) and loving compassion correspond to different parts of the brain, which are traditionally developed through different trainings. And we need both: ethically-oriented awareness (through compassion, or love) — and love, made intelligent, by awareness.
Daniela Muggia is a thanatologist and the winner of the prestigious Terzani Award for the Medical Humanities. For almost 30 years she studied the Tibetan tradition of death and dying with Sogyal Rinpoche, author of the groundbreaking Tibetan Book of Living and Dying. She also trained with Cesare Boni at Naples University, Italy. After more than 20 years of working with the terminally ill, she has developed the method Empathic Care at the End of Life, one of the most popular courses taught in hospitals, hospices and for Master's degree programs at universities in Italy and other countries. She co-authored The Impact of Empathy -- A New Approach to Working with ADHD Children, and just published Paw in Hand: Empathic Care of Animals at the End of life. Daniela lives in Italy.
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- Death and the Melting Pot: Is there a Universal Key to Caring for the Dying, Whatever Culture they Belong to? (in Total Health, febbraio 2015, pp. 16-17), la pagina internet non è più disponibile all'indirizzo https://totalhealthmagazine.com/Mags/2015February/index.html, di seguito l'articolo scarica il PDF
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Death and the Melting Pot:
Is there a Universal Key to Caring for the Dying, Whatever Culture they Belong to? As a thanatologist, I have been questioning myself for a long time on this point. The economic crisis, the wars and the planetary climate issues are most likely eliciting one of the biggest massive relocations of human beings in our history.
Now, death does not care whether you have your green card, whether you are unfamiliar with the language and religious traditions of a new place, or whether your family can or can’t join you at the end of your life. Death just “comes without warning” as Tibetans say, and those who are there to care for you, if any, are facing one more problem: how to communicate with you doctors, nurses, hospice personnel, volunteers.
Madeleine Leininger, founder of “transcultural nursing,” thinks that it is crucial to be aware, first of all, of one’s own cultural inheritance, and to use it as an instrument to understand other cultures: “By respecting differences as well as similarities, we can react appropriately to the marvelous gift that is human diversity.” The anthropological approach considers that in any situation, a human being has to be seen as connected with his original milieu, with which he or she nourishes a rich, symbolic bond.
If it is true that each culture has developed, in time, a number of peculiar behaviors that allow their members to face universal crises like sickness and death, these “local” solutions have to be considered as part of the cure.
Caregivers need to grant their clients the right to their diversity in the face of sickness and death, while reconciling this with our equality in terms of general rules: diversity is not to be assimilated into the main culture, nor to be isolated by generating stereotypes and bias.
Can the caregivers become multi-specialized in a virtually infinite number of cultures, languages and religions? They can’t. They urgently need not only a universal key, but also a very quick one (death does not wait) to discover—within a multitude of different people, all from different backgrounds—what kind of cultural, philosophical, religious or lay solutions their clients are familiar with, and bring the client back in contact with these strategies that are deeply rooted in them.
Mission impossible? No.There is a way: the ECEL, or Empathic Care of the End of Life.
What is it, and how does it work?
It took me more than 20 years to transform an intuition into a true method, as a method requires solid scientific basis, and science was able to give all the appropriate answers only recently.
This method trains the caregivers to access a special state of consciousness, from which the empathic communication shifts from a mass of data we continuously, but unknowingly, exchange with the world around us, to information we become aware of.
Neuroscience, neuro-cardiology and even quantum physics explain to us nowadays how empathic communication happens (this is the Western root of ECEL) but it is a very ancient Eastern tradition that preserves the training through which we can be- come “aware, empathic communicators.” The Tibetan “training of the mind,” supported by a second training in compassion to guarantee the ethical quality of our empathic communication, and by a large traditional thanatological study on how perceptions change in the dying, allow us, the caregivers, to learn how to adapt to these changes, while communicating with the dying. This is the second root of ECEL.
In a nutshell, we know from the Tibetan thanatological studies that a dying person’s perceptions change gradually while getting closer to death, and that the dying are more and more empathy-inclined. It means they feel what we feel, so the way we are is more important than the things we do and say. Empathic communication becomes prevalent for them. Be peace, and they will most probably die in peace.
Training is available to help us transcend our usual mind state, which is mainly based on the rational brain.
This is a cultural gap we need to fill, as Western society does not encourage children to be silent, to learn passively, and during the years in which this would help them to develop empathic communication, they are pushed toward a large amount of activities that make them good competitors in order to survive this complicated life.
In fact, adult’s brain waves encompass the lowest frequencies (Delta waves, corresponding to deep sleep) to the highest (Beta and Gamma, corresponding to our usual conscious activities), but things are different for children.
Up to two years old, children mainly function with Delta waves, then from two to six they spend most of their time in Theta state, which is directly linked to imagination. Alpha waves (having mainly to do with awareness) only start to appear when they are six to twelve years old, while Beta waves—corresponding to cortex activities, like analysis, concentration and reflection skills—appear later.
Instead of allowing us to live a state of complete receptivity during the first six years of our life, in which nature makes us especially sensitive and impressionable, so that we can “know” the world in passive ways by downloading and recording all the information and quickly learning how to adapt, the adults in our society see in this lack of discernment a great danger, as any reality can then become an absolute reference for children; mate- rial for building up their future identity.
In the West, then, the preference goes to a precocious education, pushing children into activities that are considered to positively condition their future personality.
This, unfortunately, has a side effect: our empathic potential is not fully developed, and if we still are very empathic when we are more fragile and more vulnerable, and therefore more in need of the support of the group, like during childhood and at the end of life, in the remaining periods of our existence we tend to suppress this ability.
Hence, we have to re-train in empathic communication.How does the training work?
Neuroplasticity is no longer a mystery: our brain can change form, by repeating a physical action many times, like athletes and musicians do, but also by repeating a mental action, a thought, a visualization.
We start observing the breath, as we want to get used, first, to making an unconscious activity become conscious. This is what you need if you want to become aware of information you are presently unaware of. As soon as we realize we became distracted, we go back to the breath. This “going back” is a crucial ingredient; the repetition that strengthens the part of our brain we want to train. Another fruit of this popular meditative practice on breath, present in many traditions, is a peaceful state of mind. Tibetans call it Shiné, “calm abiding.”
Once this calm state becomes a habit, the mind becomes clearer. Thoughts still are there, of course, but, as Sogyal Rinpoche says, “Like the space is not defined by the objects that cross it, so the mind is not defined by its thoughts.”
We start to experience a state of consciousness much more vast and lucid than our usual ordinary state of mind. Again, repeating this experience allows us to enter this state at will, and to remain there longer. In this state, more information arrives. Perceptions are clearer. We start to “know the other from within himself,” instead of just being outside him.
Empathy is a two-way communication; therefore we can intentionally cultivate peace, to enable the dying or the child (remember both are very empathic) to experience it. This is where it is crucial to train in ethics, and especially in compassion, which is the desire that others’ suffering comes to an end. The Tibetan tradition provides us with this training too.
As Dr. Tania Singer recently discovered, empathy and com- passion involve different parts of the brain; this explains why one can be proficient in empathy and use it to better torture one’s victim.What is the result?
“Knowing the dying from within himself” helps us to bypass a number of misunderstandings, due to linguistic problems (the dying might not speak English well), pre-linguistic (he might belong to a background I do not know at all), meta-linguistic (the same word might exist in his language, but with a different meaning, i.e. indicating a different part of the body), cultural (his representation of death or sickness might be different from mine; he might have, for example, a level of acceptance unthink- able for me, or see painkillers as a danger to his mind’s lucidity) and meta-cultural problems (if he were in Morocco, he would interrupt the Ramadan to take his painkiller, but he won’t do so in the US because in this moment he especially needs to feel part of something greater).
It also helps us to deal with the complicated evaluation of proxemics, the impact of space on interpersonal communication, which is so important when we have to deal with people we need to touch with our hands. The four interpersonal “distances” Hall measured—going from the intimate one, 0 to 45 cm, to the personal one, 45 to 120 cm, reserved for friends, the social one, 1.2 to 3.5 m, reserved, for instance, for communication be- tween teacher and students, and to the public one, greater than 3.5 m—of course are not standard, as they vary from one population to another, and according to sex differences.
How to touch, what part of the body can be touched...often this information is hidden in the unspoken world of a dying person, who has not the time nor the strength to tell us everything. But if we are capable of cultivating an aware, empathic state of mind, if we can remain there with some stability, then this kind of non-verbal information has a better chance of being consciously caught without even a word. The result is a spontaneous adequacy of our silence or words, of our gestures or absence of gestures; a peaceful, respectful environment is created that will make all the difference.
These are some of the requirements for dying with dignity.Daniela Muggia is a thanatologist co-author of The Impact of Empathy—A New Approach to Working with ADHD Children and the winner of the prestigious Terzani Award for the Medical Humanities. For almost 30 years she studied the Tibetan tradition of death and dying with Sogyal Rinpoche, author of the ground- breaking Tibetan Book of Living and Dying. She also trained with Cesare Boni at Naples University, Italy. After more than 20 years of working with the terminally ill, she has developed the ECEL Method, Empathic Care at the End of Life; one of the most popular courses taught in hospitals, hospices and for Masters degree programs at universities in Italy and other countries. The Impact of Empathy was published in October of 2014. www.BlossomingBooks.com.
Readers may contact the author on her Facebook page, where additional articles and interviews are posted: https://www.facebook.com/ImpactOfEmpathy
The book can be purchased through Amazon.com
- Death and the Melting Pot: Is there a Universal Key to Caring for the Dying, Whatever Culture they Belong to? (in Total Health, febbraio 2015, pp. 16-17), la pagina internet non è più disponibile all'indirizzo https://totalhealthmagazine.com/Mags/2015February/index.html, di seguito l'articolo scarica il PDF
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- How to Communicate at the End of Life, When Communication Seems Impossible. What does a carer perceive while in a cultivated empathic and compassionate state of consciousness, when listening to the dying? (in Total Health, marzo 2015, pp. 22-24), la pagina internet non è più disponibile all'indirizzo: https://totalhealthmagazine.com/Mags/2015March/index.html, di seguito l'articolo scarica il PDF
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How to communicate at the end of life, when communication seems impossible
What does a caregiver perceive while in a cultivated empathic and compassionate state of consciousness, when listening to the dying?In my previous article, last month I explained the principles of ECEL, a method of Empathic Care of the End of Life. I invite you to go and read it again, as the present article is the result of one of its readers asking me: “Once you are trained in sustaining a different state of consciousness, what happens? What do you feel and perceive? How do your perceptions change?”
The short answer is that it will be different and surprising every time. The fact you are surprised is so important. It means you did not fabricate it! It counters the doubting inner voice that says, “How can you be sure this is not just your projection?”
If you want to listen deeply, enter this experience with every part of you: body, speech and mind.
Body does include body language, for sure: avoid postures suggesting closure, like crossed legs and arms, or ones indicating you are precariously present there, like remaining at the doorway instead of fully entering the room, or sitting on the edge of the chair, or distractedly looking out of the window or at your watch!
But ‘Body’ also means, here, the entire physical setting, and sometimes it is a matter of some small adjustments. Remove barriers. If there is a table in between you and the dying, remove it or go and sit at their side. Be close enough for them to reach you if they need to. Do not tower over them (I often use role-play during my workshops to illustrate this point: one lays down, the other just stands there, above him, with all his benevolence... nevertheless, the one who is lying down always feel uncomfortable!)
Lastly, ‘body’ can mean the way you touch them. I remember one person having been severely burned in a huge gas explosion, in the late Seventies. You could not tell whether this being was young or old, a male or a female. I knew from the doctor he was a young man. Doctors had immersed him in a liquid. When the accident happened, a big international conference on plastic surgery was going on in town, so all the greatest experts of the world were urgently asked to visit the worst cases. Scientific translators were needed, but few of them could stand what they had to see, so many gave up. This is how I found myself there; a very young aspiring translator, not yet graduated, among specialists who were discussing how terrible this young man’s situation was, and how short his life span would be. In front of him! Speaking loudly, regardless of how the young man might be feeling inside. Of course he could not talk, but I can still hear his moaning. What I felt was how he was absolutely present, and terrorized. Afraid of death, of pain, and of this solitude. No relatives were admitted. I felt how strongly he needed to be hugged, and cuddled, consoled... and it was physically impossible. He was untouchable.
This is when I discovered I could touch him with my eyes. I had no clue at that time of what haptonomy was, I simply did it. Haptonomy is all about touch and feel, and ‘touching with the eyes’ is included. It is the vastness of your gaze, reflecting the calm, open and compassionate state you are trained in, that touches them. It is a concave gaze, like two open arms. The other can rest in it. It is the opposite of the convex, analytical gaze that looks at you as its object. So, the outer aspect of me was translating what the doctors were saying. I whispered their harsh words in the hope he would not hear. Internally, the habit of meditation had created a safe place; a calm, spacious and compassionate state in which he could rest too. At that time I was just feeling it; later I would confirm what I felt through study. I was not yet 22.
Speech, here, does not mean that you are supposed to know in advance what to say. It is quite the opposite: no list of catchy phrases. Every time you meet the dying, you are both free of preconceptions because of the empathic state you are both in. To the dying it happens naturally, while you reach it through training. No judgments, projections, or expectations. Just be there, open and available. You will find a magic word that works for you: my mantra is “I am here, for you.” The point of it is that when mentally pronounced, it switches on a completely new inner state, where time no longer exists. And the dying, being highly empathic, feel it. Here, ‘speech’ often means ‘silence’ too, but they might comment on your silence: “This is the first time someone is completely there for me. It’s never happened in all my life.”
In ECEL, we train to stay in silence. Are we at ease, or falling into anxiety, hoping the silence will be broken?
Our warmth can speak in many ways, like through creativity. In a Day Hospital where I worked in Italy, for instance, people there for chemo sessions were asked this question: “If you were on a deserted island in the middle of the ocean, and could see a bottle containing a message, floating on the water, what would you like the message to say?” Patients really are on such an island, surrounded by the water of fear, death, loneliness. The message they would like to find is exactly the opposite. Then they are given a pen and some paper to write the message they would be happy to receive. And their mind shifts from fear to something encouraging, resilient, hopeful. They enter a highly coherent state, which will first allow them to face their chemo session more positively, and secondly all these messages are collected; becoming a truly inspirational resource for other patients; at their disposal.
Third, Mind. Here, it means the state you are in, and therefore what you emanate, plus what you can receive empathically.
Once you are able to enter the correct state at will, maybe with the support of your personal magic formula that switches on your new mindset, a considerable percent of the work is done. Still, we have to dedicate part of our mind to be vigilant, as we tend to flicker if we are not well trained. The list of things you have planned for the day might pop up in your mind while you are supposed to be just unconditionally present, open, and compassionate, just ‘there’ for the other!
Another terrible temptation, at the beginning, is to resonate with the wrong thing. They tell you of their sadness or suffering? You fall in the trap, and start using this as an opportunity to tell them how difficult the last week has been for you. Remember you are there for them, not the opposite! They share their uncertainties with you? You start to impose your opinions, ‘for their own good,’ of course! Or, when they say how someone treated them badly, you pile it on, adding your blame to theirs.
Be careful not to slip from compassion into pity, too.
Sometimes what sneakily pushes us out of the track of compassion is the subtle, invisible fear that by listening to their suffering we might be overwhelmed. This can happen, of course, and it may end up in ‘burn out.’ But this happens only if you are just empathizing with them from this limited, wrong perspective. It will never happen if you listen from the space of compassion.
Enter their room as an ordinary person, but listen to them from an extraordinary state!What can we perceive, while listening from that extraordinary state?
Often you discover they have plans. Yes. You didn’t misread. They have plenty! Stay open, as sickness is something you have, not something you are. They’re still the same person they were before becoming terminally ill, wanting to leave their footprint in this world. I remember a lady who really loved children; she wanted to become a teacher but hadn’t a chance to study in her life. “It’s too late,” she whispered. This is what I heard. What I felt was the opposite: she was already paralyzed by Parkinson’s and almost mute, but really wanted to make this dream true.
Second, then, listen for life suggestions that might be conducive to a solution, and keep staying open. Was there any chance of making it happen, even symbolically? An oversized computer keyboard, a plastic extension of the single finger she could still barely direct, and—last but not least—plenty of warm support from her friends, were all available. She started to write funny, tender, short fables for children, encouraging them not to give up in life, and to be generous and fair. She movingly invented a pen name: Wobbly Granma. A small local publisher brought in a wonderful illustrator and it became a book. Then, a primary school invited Wobbly Granma! She could neither speak nor move anymore; she was brought there in her wheel chair. The children had prepared a beautiful party in her honor and some of them gave a reading of a few of her tales. A big smile appeared on her otherwise stony face. This was her first lesson to the children, in a school. An unforgettable lesson of courage, endurance, and resilience. In a sense, her inner mission was accomplished. She died a few weeks later.
Another thing you can perceive with the dying is their pre- death visions. Don’t automatically believe this is the effect of drugs. These visions have a special quality that hallucinations do not have. The dying have their own wisdom and it can manifest in this way too. Who are we, to reduce these visions to simple epiphenomena of drugs? These visions are often an incredible component of dying well. Learn how to recognize them from the correct state.
Our task is to become a magnifying glass of their own, deep, wise solutions; bringing them to their awareness, and then to support them, in any way we can.
Remember, each culture has its own winning strategies for critical times. So do individuals, each one being an expression of some culture. They just need someone to walk side-by-side with them, toward theirs! nDaniela Muggia is an Italian thanatologist co-author of The Impact of Empathy—A New Approach to Working with ADHD Children and the winner of the prestigious Terzani Award for theMedical Humanities. For almost 30 years she studied the Tibetan tradition of death and dying with Sogyal Rinpoche, author of the ground-breaking Tibetan Book of Living and Dying. She also trained with Cesare Boni at Naples University, Italy. After more than 20 years of working with the terminally ill, she has developed the ECEL method, Empathic Care at the End of Life; one of the most popular courses taught in hospitals, hospices and for Masters degree programs at universities in Italy and other countries. The Impact of Empathy was published in October of 2014. www.blossomingbooks.com and can be purchased through Amazon. com. Readers may contact the author on her book’s Facebook page: https://www.facebook.com/ImpactOfEmpathy where additional articles and interviews are posted, as well as on her Facebook page (https://www.facebook.com/Daniela Muggia).
To read the first of this three part series on Death and Dying see Total Health February, 2015 page 16. - Are North Americans Immortal? (in Total Health Magazine, aprile 2015), la pagina internet non è più disponibile all'indirizzo: https://totalhealthmagazine.com/Mags/2015April/index.html
- Meditation instead of medication–Using Tibetan Thanatology and Empathy to Work with Children who have ADHD (in Evolving Magazine, aprile 2015), la pagina internet non è più disponibile all'indirizzo: https://www.evolvingmagazine.com/#!meditation-instead-of-medication/c19hw
- A New, Non Invasive Way to treat Juvenile ADHD: Death, Dying, Tibetan Meditation & Children with ADHD (in Elephant Journal, gennaio 2015) https://www.elephantjournal.com/2015/01/a-new-non-invasive-way-to-treat-juvenile-adhd/ scarica il PDF Leggi tutto
- What changes if we cultivate empathy? The Impact of Empathy: a New Approach To Working with ADHD Children (in Spirit Seeker, ottobre 2014), di seguito l'articolo scarica il PDF
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What Changes If We Cultivate Empathy?
The Impact of Empathy - A New Approach to Working with ADHD ChildrenDaniela Muggia is a Thanatologist co-author of The Impact of Empathy-A New Approach to Working with ADHD Children and the winner of the prestigious Terzani Award for the Medical Humanities. For almost 30 years she studied the Tibetan tradition of death and dying with Sogyal Rinpoche, author of the ground-breaking Tibetan Book of Living and Dying. She also trained with Cesare Boni, a professor and teacher of Master classes in Thanatology, the study of death and dying, at Naples University. After more than 20 years of working with the terminally ill, she has developed the ECEL method, Empathic Care at the End of Life, one of the most popular courses taught in hospitals, hospices and for Masters Degree programs at universities in Italy and other countries. Impact of Empathy will be published in October of 2014. To order or for additional information, please see www.BlossomingBooks.com. A restless or obsessive child often suffers from a discomfort that he or she cannot verbalize, so what can be done to help ease them in times of distress? Our experience shows that learning to listen compassionately through training of oneself in meditation techniques, can bring great strength, and peace to an agitated moment. Empathic listening enables the caregiver to perceive the child's real needs that underlie the distressing behavior, enabling them to respond to the situation appropriately. Empathy, that is cultivated in the caregiver, is naturally and strongly present in every one of us. And since we all have access to this way of being, this empathetic state can be directly absorbed by, and eventually replicated by the child.
As The Impact of Empathy illustrates, through case studies and extensive research, empathy is an excellent and non-invasive treatment for ADHD. Below we describe this perceptual change in more detail.
• It must first be said that an empathetic state is not passive. It is an extraordinarily rich and lucid state, characterized by a great openness.
• The children "learn" the peace cultivated by those caring for them by "absorption." From this state of deeply empathic peace, that is oriented toward the well-being of others, the caregiver receives additional detail about the situation that would otherwise be missed. In this communion, where separation is reduced, communication is more direct and less tainted by interpretation, conditioning and projections of various kinds. Instead of assuming what is good for the other, the empathic state captures what the other, from deep wisdom, knows to be "good" for him.
• This reduces stereotyped forms of behavior induced by convictions and pre-formulated or predetermined beliefs based on theories or past experience. Every moment of the relationship is new, fresh and not cluttered with preconceptions, theoretical assumptions and prejudices.
• For example, we are faced with a person - a child- who is acting aggressively towards us. Normally we would have a reaction of intolerance, but if we have enough experience in meditative states, we can enter an empathic state of perception and see the situation is completely different. And from there we can sense the person's suffering and understand that we are not the real target of this bad behavior. We just see the suffering that would very much like to be seen and soothed.
• In this situation the care giver does not suffer by taking it personally and secondly, almost simultaneously, they feel compassion for his suffering. Compassion is the real sharing of pathos, of suffering; it is a profoundly shared and not a separative experience. We feel the suffering of the other to some extent, without it overwhelming us, just so we can get a sense of what is behind his aggressive behavior.
• The third result closely follows the first two, and that is that instead of reacting we act. There is a difference between action and reaction. Action is an act of freedom, because it is not conditioned, while reaction obeys external impulses to which we delegate all our power. The action in this case is a dynamic of thought, a word or gesture inspired by the compassion we have just experienced, and not the result of projection. And because of this, our response will likely be very appropriate to the circumstance.We are ''empathic animals" by nature, and we now know that the child and the caregiver who cultivates his own empathy with special techniques share a privileged form of communication. The extraordinary uniqueness of any form of empathic care of suffering can be summed up in this way.Copyright@ 2014 by BlossomingBooks, TM of Edizioni Amrita, srl.All rights reserved. No part of this book may be reproduced or utilized in any form or by any means, electronic or mechanical, including photocopying, recording, or by any information storage and retrieval system, without permission in writing from the authors,
Emilia Costa and Daniela Muggia, except for brief passages in connection with a review.4 Spirti Seeker Magazine October2014
- A New Empathic Approach for Working with ADHD Children: The Research Behind it and its Effectivenenss (in Total Health Online, ottobre 2014), di seguito l'articolo scarica il PDF
Leggi tuttoA new empathic approach for working with ADHD children:
the research behind it and its effectivenessDaniela Muggia, co-author of The Impact of EmpathyThe U.S. Centers for Disease Control estimated that in 2011, 6.4 million children —or 11 percent of American children ages 4 to 17—had a diagnosis of attention deficit hyperactivity disorder (ADHD).
Clinical and therapeutic experience tells us that most of the discomfort and psychological suffering of educators and therapists facing children with ADHD is inherent to their subjective interpretation of the child’s behavior, conditioned by individual experiences that sometimes do not allow them to see the child’s real needs. To prevent the child from harming themselves and others, we quickly jump to the gun: we want to ‘fix’ this immediately, and as a result these young people are frequently subjected to heavy dosing and often-risky psychopharmacological drug therapies that can have negative long-term side effects.What if there was an effective and non-invasive way to help?An unusual inspiration
An unusual inspiration is appearing in our culture, one that takes its cue from the other end of life.
It is presented in a new book called The Impact of Empathy—A New Approach to Working with ADHD Children, which refers to the Empathic Care of the End of Life (ECEL), a method awarded the Italian Terzani National Prize for the Medical Humanities. It has been included in numerous masters degree programs in Nursing, Psychooncology and Thanatology departments at universities in Italy and other countries, as well as in projects of Continuing Medical Education (CME) conducted in hospitals and hospices for staff training purposes.
One of the Authors, Professor Emilia Costa, is an Italian psychiatrist who specialized in treating children with ADHD, so in a sense it was ‘normal’ for her to write this book; while her co-author, Daniela Muggia, specializes in death and dying. Muggia developed ECEL during her 22 years of experience with the dying. Unexpectedly, this method brings new light into the ADHD approach, uniting the fields of Tibetan Thanatology (science of death and dying), neuroscience and an understanding of quantum physics to illustrate that the state of inner peace one achieves through meditative training, has a significant effect on soothing those afflicted by confusion and anxiety, pro- vided they are capable of absorbing this state empathically.How does it work?
Similarities between those who are at the end of life and those who are at the beginning of life are striking: both are very empathic by nature, and directly experience the state of mind of those in their surroundings. Both, when suffering a discomfort, cannot verbalize it.So, there are two things to do:
• Find a fresh vision unaffected by past conditioning that is able to perceive the child’s real needs that lie under the behavior. This is a complete training in ‘empathic listening’ through meditation;
• Root our relationship with a difficult child in deep peace, which might in turn be felt empathically and recognized by the child with ADHD. He or she will feel the urge to learn how to achieve that state in an independent way, which in turn shall help them to develop coping capacity and skills for long-term self-care.Both things are not only very useful, but can bring great strength and peace to the moment, which can, again, be directly absorbed by the child.
When a caregiver is trained to access and maintain a peaceful and compassionate state of mind, children can empathically ‘taste’ that same state from within. Therefore the approach described in the book—both the ECEL method, and other empathy-based techniques deriving from Jung— addresses mainly the adults (parents, teachers, caregivers), teaching them how to accomplish and maintain a state of deep inner peace, no matter what the ADHD child does.
No chemical straitjackets, no physical containment: “just become peace yourself, no matter what, and the childrens’ repeated experience of this will enable them to not only desire, but replicate this state within themselves.” In this sense, this approach differs from many others that also use meditation with ADHD children: here, children are not directly taught meditation, they just experience empathically the fruit of it repeatedly, as a new form of non-conflictual relationship with the adults and, in some case, with the rest of their schoolmates. Sometimes, it is their first experience of true mind peace.The wealth of resources and scientific information available in this book is impressive: for instance, you will discover a rich offering of high-level research done on meditation results on ADHD children, a vast series of scientific studies, both pilot studies and peer-reviewed ones, conducted on a number of methods based on different meditation techniques that have been applied indirectly or directly to children with ADHD.
You will find what benefits were found in 2012 in 91 Ameri- can schools of various kinds and levels, scattered over thirteen states, where one of the available trainings lasted from three to six months, with daily or twice-weekly sessions of ten to forty minutes each (practicing with children Mindfullness Meditation or Transcendental Meditation (TM):• days of absence: decreased by 25%;
• suspension days: decreased by 38%;
• significantly improved scores on validated attention skills tests;
• aggressive behavior: decreased by 8%;
• rules infraction: decreased by 50%.You might be surprised as well to learn that approximately 600 studies, of which more than 350 have been peer-reviewed, were conducted on TM, for example, and you will become familiar with them: in the book we explain things in a way that the reader enters the lab and understands absolutely everything.
You will read about the ‘historical’ studies on meditation led by important neuoroscientists that encouraged many more to enquire into the matter or to build pioneer meditation-based projects in schools, where the innate value of “troublemakers” is recognized, instead of perceiving them as “broken” children to be “fixed” chemically, and upon whom others merely project concepts.
All these benefits occur without the side effects of medication, such as sleep disturbances, poor appetite, weight loss, stunted growth and mood disorders, which then need to be treated with further medication, which are often unsuitable or children, and which in the long-term are suspected of leading to a higher risk of cardiac problems and sudden death, liver damage, psychiatric disorders, as well as higher rates of delinquency in adulthood, drug use and growth retardation, as highlighted in a 2010 study sponsored by the Ministry of Health of Western Australia and many other studies.
You will become enthusiastic about the UCLA Map Project, or the Shamatha International Project, modelled on the Human Genome Project, bringing together many researchers and scientific laboratories from all over the world, sharing their discoveries to bring together teachers and meditators from the different Buddhist schools to explore the methods and the most favorable conditions for achieving, at the present time, mastery of a basic meditative techniques involving attention, traditionally called “shamatha.”
And when you start wondering whether and how do school systems react to all this scientific data, you will be shown amazingly inspiring projects being run throughout the world: from the Alice Project in India and several European countries, involving thousands of students, to the Quiet Time Program involving more than 200,000 students, mainly in U.S.
All of this is supported with plenty of case stories: some tender, some amusing, all very touching and alive because theyCo-authors of The Impact of Empathy
Daniela Muggia is a Thanatologist and the winner of the prestigious Terzani Award for the Medical Humanities in 2008. For almost 30 years she studied the Tibetan tradition of death and dying with Sogyal Rinpoche, author of the ground-breaking Tibetan Book of Living and Dying. She also trained with Cesare Boni, a professor and teacher of Master classes in Thanatology, the study of death and dying, at Naples University. After more than 20 years of working with the terminally ill, she has developed the ECEL method, Empathic Care at the End of Life, one of the most popular courses taught in hospitals, hospices and for Masters degree programs at universities in Italy and other countries.Emilia Costa, MD, a former professor of psychiatry and psychotherapy at La Sapienza University in Rome has authored over 360 pioneering scientific publications. She studied directly with some great masters—Carl Jung, Roberto Assagioli, an Italian Psychiatrist and pioneer in the fields of humanistic and transpersonal psychology, and Psychiatrist Gianfranco Tedeschi, founding member of the professional Jungian group, AIPA, in Italy. Currently, she is the Dean of a Scientific Committee of Pharmacovigilance with the organization, Hands off the Children, which works to inform teachers, parents, medical doctors and scientists about the danger of over prescription of drugs to children. - What Changes if we Cultivate Empathy? (in Heal Myself, ottobre 2014) Page 1 https://www.blossomingbooks.com/en/repository/D1.jpeg Page 2 https://www.blossomingbooks.com/en/repository/D2.jpeg
January 2, 2015
A New, Non-Invasive Way to Treat Juvenile ADHD.
Death, Dying, Tibetan Meditation & Children with ADHD.
Using ancient Tibetan practices for training the mind, including much-studied and quantifiable practices of meditation, caregivers (as well as parents and teachers) of children with ADHD change themselves, in order to encourage and initiate healing in children.
This idea is based on ECEL, the Empathic Care of the End of Life, a method allowing a direct communication between caregivers and the dying, inspired by Tibetan thanatology (the science of death and dying), where the caregivers are trained to actively become more and more empathic as the dying become more and more empathic themselves.
The problem:
The U.S. Centers for Disease Control estimated that in 2011, 6.4 million children—or 11 percent of American children age 4 to 17—had a diagnosis of attention deficit hyperactivity disorder (ADHD). To treat this, these young people are frequently subjected to heavy dosing and often-risky psychopharmacological drug therapies that can have negative long-term side effects.
With ADHD it is not just the child that suffers: this issue affects teachers, parents, siblings and other caregivers, so the impact ADHD has on our communities is dramatic.
A restless or obsessive child often suffers from a discomfort that he or she cannot verbalize. What can be done to help ease them and to empower them to face their own distress?
The solution:
The solution is quite a revolutionary one, one of those ideas that seems easy or simple once you discover it.
Empathy is an excellent and non-invasive way of communication, which surprisingly enough becomes a kind of a treatment for ADHD. Our experience shows that the empathic listening enables the caregiver to perceive the child’s real needs that underlie the distressing behavior, so that they respond to the situation appropriately.
For example, we are faced with a child who is acting aggressively towards us. Normally we would have a reaction of intolerance, but if we have enough experience in meditative states, we can enter an empathic state of perception and see the situation is completely different. From there we can sense the child’s suffering and understand that we are not the real target of this bad behavior. We just see the suffering that would very much like to be seen and soothed.
We feel the suffering of the other to some extent, without it overwhelming us, just so we can get a sense of what is behind the aggressive behavior.
Since children are eminently empathic and receptive, they directly experience the state of mind of those in their surroundings. When a caregiver is trained to access and maintain a peaceful and compassionate state of mind, children can empathically absorb it. The children’s repeated experience of this enables them to not only desire, but replicate this state within themselves. They learn through direct experience how to deescalate symptoms and develop capacity for long-term self-care.
Meditation is proven to balance the brain’s beta and theta waves, which enables concentration and focus—something children with ADHD typically have difficulty with. Among the most recent studies, of particular interest is, “ADHD Brain Functioning and Transcendetal Meditation Practice,” conducted in 2011 by Travis, Grosswald and Stixrud. Six months after the subjects started training with TM, the imbalance in the relationship between beta and theta waves was reduced by 48% whereas drugs can only reduce it by 3%, and neurofeedback by 25%. A 30% increase in the integrated and harmonious functioning of the brain was also recorded.
How is this connected to Tibetan practices of caring for the dying?
TM is not part of the Tibetan training of the mind, but it is not so different either from the basic ingredients of it, so the results of this study are really interesting for us too. Tibetan thanatology (the science of death and dying) gives us a complete training on transforming our mind. It has been rigorously tested by Western neuroscientists. e know now that a certain part of the brain can be developed by a certain kind of meditation. We also know that direct knowledge (empathy) and loving compassion correspond to different parts of the brain, which are traditionally developed through different trainings. And we need both: ethically-oriented awareness (through compassion, or love)—and love, made intelligent by awareness.
The dying become empathic. They feel your state of mind directly, as do children. It means the way you are is more important than what you say or do.
If you want to help, be peace. Listen from a cultivated empathic state where you feel less separation; then, a direct communication becomes possible. It will work even when the person who is dying cannot hear you anymore. No projection. Total understanding. A way of listening that is direct, deep. Experience directly that we are not just these impermanent bodies and minds, but also part of universal consciousness. If you experience this, won’t your fear of death disappear? And if you listen to a child in this way, won’t their fears lessen as well?
In this empathic relationship, there is no one who gives while the other receives, no one who cares while another is being cared for, no one who knows while the other doesn’t. Once you establish yourself in this cultivated empathic state, the strength, the beauty, the greatness of the other is revealed. You won’t need to look into your resources for something to give the other. You will help them by exalting theirs.
Author: Daniela Muggia
Editor: Travis May
- How to Communicate at the End of Life, When Communication Seems Impossible. What does a carer perceive while in a cultivated empathic and compassionate state of consciousness, when listening to the dying? (in Total Health, marzo 2015, pp. 22-24), la pagina internet non è più disponibile all'indirizzo: https://totalhealthmagazine.com/Mags/2015March/index.html, di seguito l'articolo scarica il PDF
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Luglio 2016, per la rivista svizzera Movemens, l'articolo Liberarsi dalla paura della morte, di seguito l'articolo scarica il PDF
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Liberarsi dalla paura della morte
Il problema della paura della morte non è cosa da poco. Di solito, il solo argomento ci fa scappare a gambe levate, e la nostra società è lo specchio di questa inutile quanto illusoria rimozione di massa.
La parola d’ordine è apparire sempre giovani, quasi immortali. Così, quando la morte arriva, siamo perlopiù impreparati e disorientati.
E questa è davvero una follia, se pensiamo che dacché nasciamo è l’unico evento certo della nostra esistenza...
Come siamo arrivati a questo assurdo?
Ci siamo arrivati cadendo in un’illusione cognitiva.
Se omettiamo le istruzioni di tipo religioso fondate sulla fede, ossia su presupposti indimostrabili, ci è stato insegnato a identificarci esclusivamente con due nostre componenti: il corpo e la mente.
Ma, ahimè, il corpo muore e l’encefalogramma diventa piatto e quindi non c’è da stupirsi se abbiamo paura della morte. Essa ci appare come la distruzione totale delle nostre esperienze, del nostro senso di un io, dei legami che abbiamo intessuto con i nostri cari, e quindi anche la vita ci pare un fenomeno francamente assurdo da questo punto di vista...
Fatico a nascere e a crescere, e dopo un attimo (cosa sono mai un’ottantina d’anni sulla scala temporale dell’universo?) me ne vado, di solito più nolente che volente, e spesso in mezzo alla sofferenza.
Proviamo ora a smantellare l’illusione cognitiva, peraltro alimentata dai nostri sensi... dei quali però non c’è da fidarsi troppo, in quanto quelli che abbiamo in dotazione come specie sono di bassa lega sulla scala planetaria: vi sono pesciolini degli abissi e uccelli che vedono molto meglio di noi, cani e gatti hanno un olfatto superiore al nostro, per non parlar dell’udito...
Identificati per tutta la vita con due cose che muoiono, il corpo e la mente, non c’è da stupirsi che la paura della morte sia così forte se non possediamo una solida fede religiosa, cosa piuttosto rara.
Se smantellassimo la convinzione di essere solo questo corpo destinato a morire e questa mente destinata a fare altrettanto la paura della morte non riceverebbe forse un duro colpo?
Proviamoci.
Come scrive Zukav in The dancing Wi Li masters (Bantam NY 1980), “Le interazioni subatomiche non sono che la distruzione di alcune particelle per crearne altre. Il mondo subatomico è una danza incessante di creazione e distruzione, di massa che diventa energia e di energia che diventa massa. Forme transitorie balenano dentro e fuori l’esistenza, creando incessantemente una realtà costantemente ricreata”.
La vita fisica è, insomma, frutto di una morte continua: in un essere umano adulto ogni giorno muoiono dai 50 ai 100 miliardi di cellule, e prendendo la media di 75 miliardi, sono 104.166.666 le cellule che avrete perso nei due minuti impiegati mediamente per leggere questa pagina! Eppure siete ancora vivi. L’illusione è perfetta: siamo vivi perché moriamo.
Se non morissimo in continuazione, non saremmo vivi. L’opposizione tra la vita fisica e la morte fisica è fittizia, infondata scientificamente. Sono due facce della stessa medaglia.
Va bene, mi direte. Allora come la mettiamo con la morte della nostra mente? Questa, almeno, non dovremmo temerla? Che ne sarà di me, dei miei ricordi, delle mie esperienze maturate in anni di vita?
Ora, la cosa interessante è che l’energia di cui parla Zukav, per citarlo ancora, non è mera energia becera. Nossignori. È capace di dare e ricevere informazioni, ossia è altamente cognitiva. È un oceano infinito di energia che può potenzialmente diventare qualsiasi cosa. È il famoso campo quantico, di cui si parla sempre di più come di un “campo di informazioni”. Ogni punto di esso è informato dell’insieme dei suoi infiniti punti, e si possono ricondurre gli eventi a noi percepibili al frutto dell’imponderabile gioco delle informazioni. Cos’è dunque la nostra mente, se non la cognitività assoluta che si esprime in quella manifestazione materiale ed energetica, limitata nel tempo e nello spazio, che è il nostro corpo? Ed essendo circoscritta a quel tempo e a quello spazio, assume l’aspetto a noi noto di una mente relativa, colorata da condizionamenti e limitata nelle sue esperienze, certo… ma pur sempre la nostra mente, quella con cui ci identifichiamo e che riteniamo abiti nel cervello, quella che muore con il morire del corpo...
Avendo esperito solo la nostra “piccola mente personale”, simile a una goccia dell’oceano, e mai – almeno consapevolmente – la “mente oceanica“ del campo quantico, per così dire, è comprensibile che all’idea che questa goccia evapori incominciamo a immaginare il nulla e ci prende l’angoscia.
Eppure, questa goccia non è più compatta del corpo: intanto che muoiono i cento milioni di cellule in un paio di minuti, muoiono nella mente altrettanti pensieri. Non ci ricordiamo delle cellule di ieri, e neppure dei pensieri di ieri. O di dieci minuti or sono. Morti. Eppure la nostra mente si sente viva... Allora anche qui possiamo dire che la mente muore per poter vivere... Decisamente, questa opposizione fra vita e morte con cui ci hanno nutriti non funziona...
C’è allora qualcosa che non muore, qualcosa di meno instabile del corpo e della mente, di cui potersi fidare?
La buona notizia è che questa nostra mente-goccia impermanente, che conosciamo e sulla quale abbiamo indagato con la psicologia, non è la mente vera, come si è detto, ma una sorta di grossolana manifestazione della cognitività infinita del campo quantico.
E questa cognitività, così come il potenziale energetico del campo, non pare soffrire di limitazioni spazio-temporali. Potremmo dire che è la nostra vera natura cognitiva.
Bella notizia, mi direte. Ma se sono consapevole solo della sua manifestazione impermanente, la paura ce l’ho comunque.
Esatto.
E se allora provassimo, intanto che siamo vivi e vegeti (o, se preferite, intanto che continuamente moriamo nel corpo e nella mente così da poter essere vivi), a diventare consapevoli della vera natura della mente, la quale non è circoscritta agi input dei sensi e neppure legata allo stato del cervello?
Voglio dire: non “consapevoli” in modo concettuale, intellettuale, teorico, ma facendone l’esperienza? È esperibile?
Sì, lo è, e in questa esperienza si può dimorare. Non solo: da questo stato si può vivere la morte (la propria e quella degli altri), imparando ad affrontare il passaggio coscientemente.
Come riuscirci ce lo insegna un addestramento mentale antico (la meditazione nella sua accezione più autentica, appunto), e perché funziona ce lo spiega la scienza moderna.
La meditazione, asse portante delle più grandi tradizioni mistiche della Terra, è uno stato sovrapponibile ad altri stati (la veglia, il sonno, il sogno e persino la morte), un modo per esperire e poi rendere stabile questa sorta di espansione della coscienza, da cui le percezioni usuali cambiano: questo è confermato da millenni di pratica. E la scienza, soprattutto attraverso la fisica quantistica, le neuroscienze e le indagini scientifiche sulle esperienze di premorte, altrimenti dette NDE, ci spiega perché questo accade.
Facciamo, a titolo di curiosità, solo un esempio tra i tanti: il caso dei ciechi dalla nascita a cui è capitata una NDE.
Per inciso, viene chiamato NDE, acronimo di Near Death Experience (tradotto in italiano come EMI, ossia Esperienze di Morte Imminente, alias “di quasi-morte” o “di morte apparente”) lo stato di chi, per esempio in seguito ad un intervento chirurgico o ad un incidente, viene dichiarato clinicamente morto, ma poi torna in vita. Perché questo accada non è noto, ma ciò che colpisce è che a cuore fermo ed encefalogramma piatto sembra corrispondere un’attività di coscienza straordinaria: il paziente, per esempio, vede e sente tutto quello che accade intorno... E vedono e sentono anche i ciechi dalla nascita, che non hanno mai visto nulla quando erano, per così dire, “vivi”!!!1
Questo ha allargato la spaccatura tra gli scienziati che ritenevano che la coscienza fosse un sottoprodotto del cervello e i loro colleghi che, tenendo conto di queste ed altre esperienze, ritengono che essa trascenda il cervello. Questi ultimi sono in numero crescente, naturalmente, perché i fenomeni descritti ci spingono in questa direzione.
C’è modo di esperire uno stato diverso da quello in cui la mente quotidiana è invischiata, preda della separatività, e che ci tiene lontanissimi dal sentirci parte di questo Tutto che c’era prima che nascessimo e ci sarà anche dopo?
Ci si può arrivare con la meditazione, a patto di smettere di credere che la meditazione sia, come vorrebbe una letteratura riduttiva, una relativa quiete mentale. E riconoscerne, invece, lo scopo vero, che è farci assaggiare esperienzialmente la vastità della vera natura della nostra mente e consentirci di rendere stabile tale esperienza.
Da questa esperienza alla liberazione dalla paura della morte non c’è che un passo: quello da fare per raggiungere il cuscino di meditazione...
Note:
1 Cfr. gli studi di Ring e Cooper, citati da Jean-Pierre Schnetzler, Scienza e reincarnazione, Amrita 2007: «Ring e Cooper hanno descritto 21 casi di EMI e 10 casi di esperienze di decorporazione in 14 ciechi dalla nascita.
Ciò che stupisce è che tali esperienze sono identiche a quelle delle persone che vedono bene, e il cieco dichiara di aver visto il suo corpo sul letto, il personale dell’ospedale al lavoro con tutti i particolari, l’ambiente interno o esterno conforme alla realtà, e poi il tunnel, la luce, gli esseri dell’altro mondo, i genitori morti, e così via. Questi soggetti non avevano alcun sogno visivo prima della EMI. Alcuni hanno riportato il fenomeno della vista a 360°, lo stesso che a volte è segnalato nelle EMI dei vedenti. È difficile sfuggire alla conclusione che debba esistere una percezione extrasensoriale, ad opera della coscienza, che trascende il cervello».
Settembre 2016: per la rivista svizzera Movemens, disponibile per ora solo in abbonamento, ha pubblicato un articolo insieme a Stefano Cattinelli sull’ʺAccompagnamento empatico degli animali alla fine della vitaʺ.
5.3.2017: Congresso di Oncologia integrata, Modena. Un breve articolo sugli Errori di comunicazione che aggiungono sofferenza al malato oncologico è pubblicato sul sito del congresso. http://www.360gradieventi.info/quanta-sofferenza-superflua-e-nascosta-nella-comunicazione-intorno-al-malato-e-alla-malattia/ , di seguito l'articolo scarica il PDF
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Quanta sofferenza superflua è nascosta nella comunicazione intorno al malato e alla malattia?
La premessa della separazione, alla base della visione meccanicistica newtoniana del mondo, si fonda sul fatto che tutto ciò che esiste in questo universo galleggi in un vuoto “realmente vuoto” che, intrinsecamente, separa ogni cosa.
La fisica ha ribaltato un intero universo e solo ora se ne vedono gli effetti in tutti i campi della conoscenza, e anche nel campo della comunicazione che giureremmo essere più umanistico che scientifico.
Il fatto che quello che un tempo veniva indicato come “il vuoto” (perché non vi si poteva misurare alcuna attività) sia invece un “campo di energia quantica”, un campo di energia vivente che pervade tutto ciò che esiste nell’universo visibile e invisibile, in virtù del quale ogni minima parte dell’universo, qualunque essa sia, è istantaneamente in contatto con tutto, ha aperto la porta a una percezione totalmente diversa del mondo e delle relazioni tra individui.
Alcune caratteristiche di base di questo campo ci interessano particolarmente qui, perché sono intimamente legate alla comunicazione umana: quando la comunicazione viene “violata”, ossia quando non sa tener conto che siamo intimamente legati ad ogni cosa e ad ogni essere vivente di questo universo, accade che all’ascolto profondo dell’altro si sostituiscano le nostre proiezioni, fondate su esperienze e credenze nostre e non dell’altro: schemi preconcetti, erroneamente ritenuti validi per tutti. E questa violazione diventa fonte di grande stress e di conflitto per tutti coloro che vi sono coinvolti.
La cosa diventa ancor più delicata quando la comunicazione ruota intorno a un malato, dal momento della diagnosi infausta in poi.
E se poi pensiamo che il pensiero depresso indotto da una comunicazione inadeguata attiva l’amigdala, la quale deprime anche il sistema immunitario, comprendiamo quale immenso valore abbia, nella remissione e nella guarigione, una comunicazione sana. E anche quanto essa sia responsabilità comune: dei curanti, dei famigliari e del malato stesso.
Daniela Muggia, tanatologa
Dal pensiero separativo all’empatia eticamente orientata: un nuovo modo di ascoltare il malato e prevenire molta inutile sofferenza
La sofferenza comunicativa che circonda un malato è enorme, e ha inizio con il modo in cui la diagnosi gli viene comunicata. Spesso il medico è a disagio: all’università non ha perlopiù studiato comunicazione, e si nasconde dietro le statistiche, dimenticando che ogni persona è unica e inimitabile, ha una sua resilienza e delle risorse che le sono proprie, di cui le statistiche non tengono conto. E che se mi si dice che statisticamente mangio 12 polli all’anno la cosa è ridicola perché io sono vegetariana.
Il rimedio è imparare a comunicare, e questo inizia dall’imparare ad ascoltare da uno stato aperto ed empatico, eticamente orientato alla compassione. Sappiamo dalle ricerche neuroscientifiche più recenti che le aree del cervello che si attivano con l’empatia non sono le stesse che si attivano con la compassione, per cui la seconda previene il pericolo di “fusione”, temuto in medicina perché – giustamente – il curante rischierebbe di farsi carico di tutta la sofferenza del malato confondendosi con lui.
La cosa interessante è che entrambe, l’empatia e la compassione, sono qualità innate della nostra mente, semplicemente non sviluppate appieno in una società che sollecita fin da bambini altre parti del nostro cervello per renderci competitivi in base ai suoi valori. E la cosa più interessante ancora, è che il nostro cervello è neuroplastico e lo possiamo “addestrare” all’empatia e alla compassione attraverso l’induzione ripetitiva di tali stati.
La tradizione tanatologica tibetana sostiene il malato con una serie di pratiche meditative dette appunto “della compassione”, che oggi sappiamo produrre nel cervello dei cambiamenti notevoli con un addestramento alla portata di tutti, senza alcuna connotazione religiosa.
Unendo neuroscienze, neurocardiologia e fisica quantistica con queste antiche tradizioni è nato ECEL, Empathic Care of the End of Life, un metodo di accompagnamento del malato che parte dalla diagnosi infausta e lo accompagna fino alla morte (o, sempre più spesso, grazie ai progressi della medicina, alla guarigione!)
L’addestramento è per i curanti, gli accompagnatori, i famigliari; e naturalmente, se ovviamente ve n’è il tempo, anche per il malato, che diventa così protagonista di una nuova comunicazione con coloro che lo circondano.
25 anni di esperienza di accompagnamento mi hanno insegnato che possiamo arrivare al malato persino quando ce ne è precluso l’accesso, perché tutti siamo correlati: basta poter trasformare la comunicazione di uno dei protagonisti della storia (il curante, il malato, il famigliare) perché la storia cambi, un po’ come basta cambiare un addendo di un’addizione perché cambi il risultato.
Daniela Muggia, tanatologa
Settembre 2017, sulla rivista Movemens l'articolo Il processo della morte nella visione tibetana: la dissoluzione degli elementi e la dissoluzione interna ,di seguito l'articolo scarica il PDF
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Il processo della morte nella visione tibetana: la dissoluzione degli elementi e la dissoluzione interna. Settembre 2017
Secondo la medicina tibetana, tutti i fenomeni, animati e inanimati, hanno la stessa base (la stessa natura fondamentale): sono cioè dei fenomeni compositi e continuamente mutevoli, derivanti da un medesimo potenziale energetico, un pensiero che certo vi farà richiamerà alla mente l’idea del campo quantico da cui “collassano” continuamente fenomeni instabili e impermanenti per definizione – essendo il frutto, istante per istante, di tutte le forze universali che agiscono si ciascuno di essi.
Quest’unica fonte energetica o potenziale, si diversifica in 5 aspetti che, componendosi in vario modo e in diverse proporzioni, danno origine a tutto ciò che cade sotto i nostri sensi e a tutto ciò che i nostri sensi non colgono. Insomma, a tutta la realtà. Rispetto al corpo, ciò significa che queste energie dinamiche “subatomiche” partecipano alla formazione di ogni cellula tessutale, e che è la preponderanza di un elemento piuttosto che di un altro a determinare la diversificazione dei tessuti.
tradotti nelle lingue occidentali, i nomi di questi 5 aspetti corrispondono ai nomi dei 5 elementi (Terra, Acqua, Fuoco, Aria, Spazio), cosa che a volte provoca una certa confusione: per esempio, l’acqua che beviamo non contiene solo l’elemento Acqua, ma è composta da tutte le 5 diversificazioni o aspetti della fonte potenziale originale.
Appurato cosa s’intenda qui per “elementi”, è bene sapere che sono suddivisi in esterni, interni e segreti. Esterni sono gli elementi percepibili in natura, la base dei quali è sempre e comunque, come abbiamo detto, lo Spazio. Per elementi interni s’intendono le proprietà dei 5 elementi presenti nel corpo umano, e per elementi segreti s’intende la loro funzione energetica, tanto nell’uomo quanto nell’ambiente. Come a dire che ciascun elemento possiede caratteristiche che lo contraddistinguono tanto sul piano della materia quanto sul piano energetico e coscienziale...
Lo Spazio è la base, il punto di partenza; è la vacuità, intesa come “vuoto – o assenza – di manifestazione”, ossia stato potenziale, dove tutto è ancora immanifesto, e quindi le qualità di questo elemento saranno, rispetto al corpo, preponderanti nella costruzione degli organi cavi; l’Aria è la dinamicità, e le sue proprietà saranno, sul piano del corpo, legate alla funzione respiratoria; il Fuoco è l’energia, il calore, le sue proprietà saranno responsabili della temperatura corporea, della colorazione della cute, ma è anche l’intelligenza, ossia la “luce” della mente; la Terra è l’espansione attraverso la crescita, e le sue proprietà saranno preponderanti nella formazione delle cellule del tessuto muscolare, delle ossa, delle parti dure del corpo, della pelle; l’Acqua è la coesione necessaria alla forma... le sue qualità saranno preponderanti nella formazione degli “umori” (termine che nella medicina tibetana si riferisce solo alle modalità di circolazione dell’energia nel corpo), delle cellule del sangue, eccetera. Ѐ l’equilibrio di tutte queste forze nell’ambiente a mantenerlo sano, e analogamente l’equilibrio di tutte queste forze nel corpo-mente mantiene buona la salute psicofisica. Quando tale equilibrio si incrina, ci ammaliamo. Dunque c’è da aspettarsi che nella morte la perturbazione si tale da essere irreversibile e l’equilibrio annientato.
Ciascun elemento è anche legato al manifestarsi di uno dei 5 sensi (Terra =olfatto; Acqua=gusto; Fuoco=vista; Aria=tatto; Spazio=udito) e della relativa coscienza sensoriale (la visione della coscienza nella medicina tibetana è molto diversa dalla psicologia occidentale, ed è per noi occidentali interessantissima... Stiamo parlando di una scienza della mente che si è sviluppata dall’anno 800 d.C. in poi, senza interruzioni... Quindi, il progressivo squilibrio degli elementi alla fine della vita cambia drasticamente anche le percezioni sensoriali e di conseguenza anche i dati della coscienza, a sua volta formata dagli aspetti più sottili dei 5 elementi.
Secoli di osservazioni del progressivo destabilizzarsi degli elementi in malati che non usufruivano di nessuna cura chimica hanno rilevato che questo squilibrio progressivo avviene secondo certe modalità, ancor oggi osservabili sia dall’interno (quando siamo noi a morire) sia dall’esterno; se siamo capaci di osservare il progressivo squilibrio degli elementi del corpo nel morente, e impariamo a quali mutamenti percettivi interiori questo corrisponde, la nostra comunicazione con una persona alla fine della vita può restare aperta fino alla fine, invece di immaginare cosa sia bene per lei e proiettarle addosso i nostri concetti.
La visione olistica dell’uomo promossa dalla medicina tibetana infatti ci presenta una sorta di essere umano “tripartito”. C’è il corpo fisico, costituito dall’aspetto più grossolano degli elementi di cui sopra, e poi c’è una sorta di biologia sottile, che ricorda in parte la visione dell’agopuntura cinese (i meridiani ormai sappiamo cosa sono e li usiamo, ma non li “vediamo” con gli occhi. Possiamo solo “sentirli”, come i famosi “polsi”, se addestrati come si deve a una percezione più sottile); essa è composta di canali o tsa (“radice” in tibetano, in quanto essi compaiono prima della biologia fisica, che da essi deriva), di chakra (ossia i punti di snodo dei canali), di venti o pneuma (lung in tibetano) e di tiglé, che potremmo tradurre con “gocce” quintessenziali, riferite alla presenza degli elementi in un’ulteriore dimensione dell’uomo, sottilissima, che potremmo definire “spirituale” (ma evitando connotazioni religiose), e definitivamente empatica.
Ѐ la dimensione che non viene di solito presa in considerazione in Occidente, dove il campo della spiritualità è stato perlopiù consegnato nelle mani della religione, sicché uno che non sia religioso non ha nessun aiuto in materia. Da qui il bisogno, per noi, di accedere a modalità comportamentali come la meditazione, che – come molti di voi forse hanno già sperimentato – danno accesso a stati altamente empatici, diversi da quelli che sono materia della psicologia occidentale. Da tali stati accediamo a informazioni che sono già a nostra disposizione, ma di cui semplicemente non siamo per nulla consapevoli. Ma quanto è utile averle, nell’accompagnare la morte altrui! Per non parlare della nostra: immaginate di conoscere fin d’ora le tappe con cui lo squilibrio degli elementi si manifesterà in voi, e come a tale processo corrispondano necessariamente determinate alterazioni percettive... Quando avverranno non ne avrete paura, anzi. Potrete mantenervi lucidi e osservare il processo dal di dentro, lasciando il corpo come si lascia un vestito vecchio...
Abbiamo detto che l’Aria, o Vento, pervade ciascuna di queste tre dimensioni dell’uomo. Certo avrete sentito parlare del prana, il termine sanscrito che corrisponde al tibetano lung, e forse già sapete che è l’energia vitale sottile che ci pervade, regolando gli scambi tra organi e funzioni del corpo. Ora, la medicina tibetana analizza anche la modalità (o “umori”) con cui il prana circola nel corpo; sono tre, e interagenti tra loro. I termini tibetani che le definiscono sono tradotti ahimè in modo da alimentare ulteriori confusioni, perché in italiano si parla di “bile” (ma l’umore “bile” è qualcosa di molto più sottile della bile prodotta dalla cistifellea), “flegma” e “pneuma”, traduzione che preferiamo a “vento”, “aria” o “soffio” che ci rimandano anche ad altro.
Questi pneuma o lung interni non solo sono all’origine dei vari movimenti circolatori del corpo, compresa la circolazione del sangue, il movimento della respirazione, l’inghiottire cibi e bevande, il trattenere ed espellere feci e urina, i movimenti degli arti e degli orifizi, ma sono anche l’aspetto dinamico dei nostri cinque sensi e della stessa coscienza. Vi sono cinque “venti” principali e altrettanti secondari, con funzioni diverse, e quando le condizioni di buon equilibrio che li regolano vengono a cessare, si manifesta la malattia. In particolare, quando la morte si avvicina questi pneuma diminuiscono di intensità, e si assiste all’evoluzione dei sintomi patologici e all’alterarsi delle percezioni sensoriali.
Una volta che lo squilibrio dei venti diventa irrevocabile, essi lasciano i canali sottili o tsa in cui di solito risiedono, il che comporta la disgregazione progressiva dei canali e dei chakra che ne sono i punti di diramazione, gli incroci principali.
I pneuma scompaiono uno dopo l’altro, e con essi scompare quanto costituisce il nostro sé temporaneo, illusoriamente definito dal fatto di possedere una forma (ossia un corpo che è dotato di determinate caratteristiche), delle sensazioni (piacevoli, spiacevoli, neutre), delle capacità di discernere e di etichettare le cose, e un aspetto coscienziale (le cinque coscienze sensoriali e così via: ve ne sono otto, nella psicologia tibetana!).
Questa prima disgregazione (chiamata “dissoluzione o riassorbimento degli elementi esterni”) avviene contemporaneamente anche sul piano degli elementi grossolani e sottili, ed è riscontrabile negli aspetti fisici ad essi corrispondenti, per cui ce ne possiamo accorgere se impariamo ad osservare i morenti in modo non superficiale ma con grande presenza mentale e nessuna proiezione. Per questo occorre addestrarsi ad osservarli dallo stato di meditazione.
Ciò che avviene nella morte è inverso a ciò che avviene nella nascita, e osservando come si muore comprendiamo come si nasce. Ma siccome il fenomeno è spiegato utilizzando delle categorie che sono un po’ estranee agli occidentali, occorrerebbe ben più dello spazio di questo articolo. Basti dire che perché il concepimento abbia luogo devono essere compresenti 3 fattori: l’ovulo, lo spermatozoo e la coscienza, e che lo schema o struttura degli elementi è presente ovunque, anche nella dimensione sottilissima o spirituale della coscienza. È il legante che permette a tutti e tre di comunicare, di interagire. È la loro lingua comune, per così dire.
Nel Bardo di questa vita sono contenuti altri due Bardo, ed entrambi danno luogo a pratiche per prepararci alla morte: il Bardo del Sogno e il Bardo della Meditazione. Se abbiamo tempo, ci ritorniamo dopo. Il Bardo del morire ha inizio con i segni interni ed esterni che annunciano la morte, e continua con le dissoluzioni esterne e interne, ossia il riassorbimento degli elementi che si conclude con l’arresto del respirazione esterna (la morte per gli occidentali) e l’arresto della respirazione interna (la morte per gli orientali), a cui fa seguito la prima manifestazione della chiara luce, ossia della nostra vera natura così com’è, a monte del suo “collassare” in quel fenomeno complesso che siamo noi. Se non ci siamo addestrati a raggiungere lo stato mentale corrispondente in vita, in cui c’è pace profonda, grande consapevolezza e compassione, non la riconosciamo. Il karma è sospeso, e se riconosciamo questo stato come la vera natura di tutto, anche nostra, e in essa sappiamo dimorare non distratti, conseguiamo facilmente l’illuminazione. La morte è una grande opportunità.
Se però non la riconosciamo, è come se da quello stato perfetto e assoluto avesse luogo dinnanzi a noi la creazione del nostro prossimo “noi”, né uguale al precedente né del tutto diverso, perché prodotto di molte vite. Il vento del karma soffia di nuovo..
Si dispiega allora il Bardo della dharmata o della luminosità, caratterizzato da visioni e suoni corrispondenti a ciò che nello Dzogchen si chiama manifestazione delle 4 visioni del Thögal (Tibetan: thod-rgyal). Ma se non abbiamo praticato in vita lo stato mentale corrispondente, non riconosciamo tali visioni come una manifestazione della nostra vera natura e cadiamo nella visione dualistica del “me” e dell’“altro da me”, e le temiamo. È detto comunque che questo bardo dura un attimo soltanto per chi non ha mai praticato il training corrispondente .
Lo segue allora il Bardo del Divenire, detto “irreversibile” perché lì l’Illuminazione è quasi impossibile: tornano tutte le abitudini, il karma, le emozioni, anche quelle turbolente. Questo bardo dura fino a che il respiro interno comincia dentro alla nuova forma della nostra trasmigrazione, determinata dai semi o impronte karmiche giacché non ci siamo liberati al momento giusto. I semi karmici sono nella coscienza magazzino.
Per capire la relazione fra il ricorrere dei 5 elementi e la trasmigrazione continua nei bardo, ossia nei vari stati di esistenza, compreso quello in cu ci troviamo ora – un argomento molto importante da comprendere, se vogliamo poter accompagnare la morte altrui e la nostra – occorre capire che la mente, per sua natura vuota di esistenza inerente, luminosa, infinita (o se preferite “non-locale”), è dotata di cinque qualità fondamentali che ora siete probabilmente in grado di correlare da soli ai cinque elementi:
- la mente è indeterminabile, onnipresente e isotropa; questa è la sua vacuità;
- la mente è mobile, versatile, in essa appaiono continuamente nuovi pensieri e stati molto vari;
- la mente è dotata di chiarezza, ossia di cognitività;
-la mente è dotata di continuità, che riconosciamo nel flusso ininterrotto dei pensieri e delle esperienze,
-la mente è dotata di stabilità (non nel flusso dei pensieri ma nella base della sua vera natura, da cui sorge tutto il conoscibile).
Queste qualità o aspetti della mente hanno rispettivamente la stessa natura dei cinque elementi (Spazio, Aria, Fuoco, Acqua, Terra), e permangono in tutte le sue produzioni (pensieri ed emozioni) anche quando essa si allontana dallo stato primordiale per perdersi nell’illusione dualista di un soggetto, di un oggetto e di un’azione.
Queste cinque qualità fondamentali corrispondono a cinque venti sottilissimi, che a loro volta si dissolvono – o “riassorbono” – nella morte.
Interessante il commento del Dalai Lama al Kalachakra Tantra:
«Nella comune rinascita, l’essere che si trova nel bardo intermedio fra la vita passata e quella che lo aspetta vede i genitori mentre fanno l’amore. Una rinascita maschile sarà determinata dal provare desiderio per la madre e repulsione per il padre, di cui l’essere che sta per incarnarsi vorrebbe sbarazzarsi; una rinascita in un corpo femminile sarà determinata dal desiderio provato per il padre e dalla repulsione per la madre, di cui vuole sbarazzarsi. Si tratta di un desiderio di copulazione in entrambi i casi, e quando l’essere incomincia ad abbracciare il genitore che desidera ne percepisce solo l’organo sessuale. Nel mezzo di questi sentimenti l’essere muore rispetto al bardo in cui si trova, entra nell’utero e rinasce nel momento in cui ha luogo il concepimento».
Se durante il concepimento le gocce quintessenziali contenute rispettivamente nello sperma e nell'ovulo fungono da… "trappola" per il principio cosciente, così alla fine della vita, in virtù della dissoluzione esterna degli elementi, ci si avvia verso la dissoluzione della trappola e la liberazione del principio cosciente. Questo processo ulteriore di dissoluzione avviene dopo la morte clinica, che dunque non è affatto “morte” per la medicina tibetana, la quale descrive precisamente come la nostra coscienza percepisce tutto questo, spiega come riconoscerne le tappe e come farne buon uso per vivere consapevolmente tutto il processo e soprattutto dirigere quello che viene dopo, invece di esserne travolti e sopraffatti.
Molte sono le pratiche meditative che ci permettono questo viaggio cosciente in accompagnamento del nostro fine vita e di quello altrui. Dal semplice aumento della consapevolezza e dell’empatia per diventare consapevoli di informazioni già disponibili ma di cui non sappiamo come diventare consapevoli, alle pratiche per guidare opportunamente l’uscita del principio cosciente dal corpo...
Decisamente sarà un seminario molto intenso, a cui tutti siete benvenuti perché una sola cosa è certa nella vita: ed è che tutti, essendo nati, moriamo.
Daniela Muggia, tanatologa
e Thubten Tenzin, medico in medicina occidentale e in medicina tibetana
Ottobre 2017, sulla rivista Gente Sana l'articolo Morire consapevoli: come preparare e prepararsi alla morte , di seguito l'articolo scarica il PDF
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Morire consapevoli: come preparare e prepararsi alla morte
La cultura tibetana, nei secoli, ha dedicato al/’istante de/la morte una quantità di meticolosi studi e ricerche che ci permettono di conoscere la fisiologia della morte e quali sono i presupposti che permettono di approfittare al meglio di questo importante appuntamento. Oggi le scoperte dei tibetani sono supportate dalla scienza occidentale.
di Daniela Muggia
L’accompagnamento empatico della fine della vita così come e espresso dal metodo ECEL - un acronimo che sta per Empathic Care of the end of Life ossia accompagnamento empatico della fine della vita, ii metodo che ho messo a punto in questi quasi trent’anni di esperienza - si differenzia da ogni altro tipo di accompagnamento perché viene effettuato da uno stato altamente empatico conseguito intenzionalmente, che qualcuno chiama «stato meditativo» e altri «contemplativo». Malgrado questi aggettivi, questo approccio non ha caratteristiche religiose; parte invece dal presupposto che l’uomo abbia, oltre a dimensione fisica ed emotiva, anche una natura profonda che oggi alcuni definiscono «coscienza non locale», capace di oltrepassare la visione dualistica del mondo. L’approccio trae origine da due pro fonde radici: una e molto antica, ed e l a tanatologia tibetana, forse la più completa del pianeta, e l’altra e molto moderna, ed e costituita da ricerche recenti in campo neuroscientifico, neurocardiologico e fisico-quantistico. Si tratta di un approccio talmente universale da diventare uno strumento rispettoso e utile per chiunque - quale che sia ii suo credo o la sua laicità - si trovi alle prese con la morte, la sua, quella di una persona cara o di un animale di famiglia. Più di qualsiasi altra cultura planetaria vivente, fatta forse eccezione per l’antica cultura del Messico centrale, quella tibetana ha dedicato all’istante della morte una quantità di meticolosi studi e ricerche, ed e forse l’unica ad aver considerato la preparazione alla morte come un atto quotidiano, un atto di igiene mentale, per così dire, di quelli che durano per tutta la vita. Gli occidentali, invece, preferiscono pensare che la morte accada ad altri. Prendiamo l’esempio degli italiani, di cui faccio parte, e diamo un’occhiata ai loro necrologi: se ne vanno, ci lasciano, decedono, passano a miglior vita, trapassano, vanno nel mondo dei più, mancano all’affetto dei loro cari, lasciano questa valle di lacrime, tutt’al più si spengono... ma non muoiono mai. Pare, insomma, che siamo immortali... e invece, come ebbe a dire un noto maestro tibetano, «tutti abbiamo un piede nella fossa e l’altro su una buccia di banana»! Sicché quando si parla di «accompagnamento dei morenti», non va dimenticato che il primo morente a cui possiamo fin d’ora portare aiuto siamo noi.
L’approccio occidentale e orientale sono certamente uniti nel desiderio di alleviare le sofferenze dell’altro, ma divergono non poco metodologicamente. Se l’approccio occidentale parte da un insieme di casistiche e di nozioni acquisite da applicare a seconda delle situazioni, per cui l’accompagnatore diventa «l’esperto» alla cui «esperienza» l’accompagnato dovrà affidarsi, l’approccio orientale parte dal fatto che l’accompagnatore non ha nulla da insegnare al morente, il quale è, come ogni altro esse umano, dotato di una perfetta saggezza. La nostra vera natura, saggia e buona, e tuttavia oscurata da una serie di emozioni distruttive che disturbano la nostra vita e che possono rendere infernale anche la nostra morte, ma il ruolo dell’accompagnatore e proprio quello di fare emergere nell’accompagnato uno stato quieto, in cui, placate le emozioni, egli sia eminentemente creativo e in grado di sapere cosa e meglio per lui: l’esperto, insomma, è e rimane il diretto interessato, una volta riportato in contatto con la sua profonda e saggia natura. Questa «vera natura» e uno stato che, se non fosse che il buddhismo aborre le definizioni teisti che, potremmo definire «divino»... perché illimitatamente presente, dunque onnipresente, infinitamente cognitivo, dunque onnisciente, e base di ogni possibile manifestazione, dunque onnipotente.
Ora, noi non possiamo pretendere di entrare in questo «stato speciale», quale che esso sia, quando veniamo chiamati d’urgenza al capezzale di uno sconosciuto, o quando ci troviamo nella tempesta emozionale provocata dalla perdita di un nostro caro o da quella, ancora maggiore, dell’imminenza della nostra morte. Sarebbe un po’ come pretendere di fare i quattrocento a ostacoli a tempo di record senza mai esserci allenati. Quale ii segreto, allora? L’addestramento , ci dicono in coro tutte le scuole di meditazione tibetane.
In meditazione, la mente pian piano impara a non rimanere aggrappata alle percezioni esterne e ai pensieri, impara a lasciarli venire e andare, senza interferire con essi, senza continuamente farsene sviare. Scopre una dimensione cognitiva più profonda, che e alla base di ogni esperienza. Scopre di poter dimorare lì e che da lì può pensare, parlare, agire. Questa stato e caratterizzato da grande lucidità, ma anche da una straordinaria apertura. È un po’ come se la famosa goccia nell’oceano scoprisse all’improvviso la sua oceanicità (passatemi il neologismo!), e accedesse improvvisamente a uno stato di coscienza in cui la separazione tra me e «l’altro da me» e meno netta, per cui si colgono dell’altro molte più cose. La nostra comprensione dell’altro e così profonda che sorge spontanea la compassione, molto diversa dal compatimento. Come ebbe a dire Levine «il compatimento è quando la mia paura incontra la sofferenza dell’altro. La compassione, è quando il mio amore incontra la sofferenza dell’altro».
Da questo stato, o perlomeno da quanta di più vicino a questo stato riusciamo a raggiungere, l’accompagnatore è più efficace e ii morente muore meglio.
La morte si rivela allora un momento privilegiato, la grande occasione per dissolvere la limitata percezione dell’ego in favore di un riassorbimento definitivo nella nostra vera natura, il che equivale a dire che e l’ occasi o n e per dissolvere ii nostro crederci una goccia, mentre in realtà siamo l’oceano.
Se ci siamo allenati bene e se la mente e tranquilla, sia quando assistiamo un morente sia quando ii morente siamo noi, sapremo anche riconoscere le tappe progressi ve - descritte con precisione dai tibetani - che annunciano il momento tanto atteso, quello in cui la nostra vera natura ci appare in tutta la sua perfezione, il momento in cui non bisogna essere distratti. Ma, siccome siamo atleti della distrazione e non dell’attenzione, e molto probabile che accada.
«La vita - diceva Oscar Wilde - è ciò che succede mentre noi pensiamo ad altro». Ecco, bisogna che questo non accada, almeno durante la morte!
La morte è di fatto, a ben rifletterci, anche la sola cosa sicura che avverrà nella vita: possiamo laurearci o meno, sposarci o meno, avere un figlio o meno. Talvolta ci si prepara strenuamente per essere pronto nel momento in cui queste cose avverranno, e poi non avvengono. Non è bizzarro che ci si prepari meticolosamente per tutto, e non ci si prepari per la sola cosa sicura della nostra vita, ossia per il fatto che, essendo nati, di certo moriremo? In somma, meglio addestrarci, a cominciare da... subito!
Daniela Muggia, Premio Terzani 2008 per l’Umanizzazione della Medicina, tanatologa, docente, saggista, ideatrice del Metodo ECEL di Accompagnamento Empatico alla Fine della Vita, membro dell’equipe di accompagnamento di Associazione Tonglen Onlus, di cui e presidente (www.tonglen.it).
Nel 2018, l'articolo Guarire i lutti misconosciuti: quando la morte avviene in utero, o intorno al momento della nascita , di seguito l'articolo scarica il PDF
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Guarire i lutti misconosciuti: quando la morte avviene in utero, o intorno al momento della nascita.
Per quanto la morte sia la sola cosa certa nella nostra vita dacché siamo nati, resta nondimeno un tabù che si estende anche al mancato riconoscimento del lutto in circostanze che, vedremo, sono particolarmente gravi.
Si tratta del lutto prenatale e perinatale.
Per lutto prenatale s’intende una perdita subita prima della nascita e in particolare la morte del proprio gemello in utero. Un caso molto più frequente di ciò che si immagina, giacché le recenti analisi ecografiche confermano che questo terribile dramma è stato vissuto da quasi una persona su 10… come a dire che, ogni 10 persone, ce n’è una che viene al mondo già con un lutto irrisolto, una traccia indelebile di cui non conosce nemmeno l’origine.
Ne parlano Alfred e Bettina Austermann in La sindrome del gemello scomparso (Edizioni Amrita): il primo è uno psicologo specializzato in psicologia prenatale e terapia sistemica familiare; la seconda è Gestalt-terapeuta. Entrambi sono fra i pionieri degli studi sul tema della scomparsa di un embrione in gravidanze gemellari confermate tali da un’ecografia all’inizio della gestazione, e delle subdole conseguenze che la perdita del fratello con cui condivideva l’utero ha sulla vita futura del cosiddetto “gemello sopravvissuto”. Sui traumi legati alla vita intrauterina si ragiona da tempo, ma poco si parla di questo trauma terribile, spesso causa di sensi di colpa, struggimento e un malessere, anche fisico, che affonda le proprie radici là dove dovrebbe avere origine la vita.
Gli Austermann sono giunti a teorizzare la sindrome del gemello scomparso partendo da una serie di sofferenze inesplicabili e drammi relazionali di certi loro pazienti che si chiedevano, disperati, “che cosa non funziona in me”, ed erano alla ricerca costante di qualcosa di inafferrabile, passando inutilmente di terapia in terapia, o che si rivelavano incapaci di superare la morte di un amatissimo animale domestico.
La casistica raccolta dagli Austermann rivela inoltre che molti problemi “congeniti” (in realtà acquisiti in utero), fra cui patologie dell’udito o della vista, malformazioni della colonna vertebrale, ma anche attacchi di panico, difficoltà respiratorie ecc., vengono completamente superati solo dopo aver dato la giusta attenzione alla sindrome del gemello scomparso e averla risolta definitivamente.
A seguito del loro percorso di ricerca, gli Austermann ci sanno spiegare oggi i fondamenti scientifici della sindrome, e soprattutto, da terapeuti esperti, i percorsi di elaborazione di questo lutto precoce che si possono proporre con successo.
Il lutto perinatale, ossia la perdita di un bambino durante la gravidanza in conseguenza di un aborto terapeutico, oppure perché nasce morto, è già di per sé un lutto che la tanatologia considera grave (perdita del figlio), ulteriormente aggravato da una serie di inadeguatezze sociali, mediche e giuridiche.
Come elaborare il lutto di un bambino che non è mai venuto al mondo e quindi “non esiste”? Come dirsi “genitori” di qualcuno che non ha neppure un nome? Come “rimettere in cantiere” un’altra vita, dopo aver “sfornato” la morte? Come elaborare una perdita minimizzata o negata, quando parenti e amici liquidano l’evento con frasi di circostanza quali “siete giovani, ne avrete altri”, e la stessa legislazione, se il feto è morto prima della 28esima settimana, non parla nemmeno di “nato morto”, ma di “prodotto abortivo”, mentre per il genitore, in particolare per la madre, era già un figlio a tutti gli effetti? Il rischio è quello di trovarsi completamente isolati, incompresi, e pertanto ancora più privi di strumenti per affrontare il problema, che giustappunto, per il resto della società, sembra non sussistere.
Nella mia esperienza ha dato buoni risultati l’“accompagnamento empatico della sofferenza” (vedi www.tonglen.it). Ne parla, pur con un taglio diverso dovuto alla sua specializzazione in psicosintesi, la psicoterapeuta francese Chantal Haussaire-Niquet, in Guarire il lutto perinatale secondo la psicosintesi (Edizioni Amrita). L’autrice è giunta ad occuparsi del problema perché lo ha vissuto due volte sulla sua pelle: dei suoi 4 figli, 2 sono nati morti. In seguito, i suoi studi e le sue opere hanno contribuito a dare il via, nel suo Paese, a un movimento che ha attecchito dentro ai reparti maternità, consentendo ai genitori, agli operatori sanitari e ai professionisti dell’accompagnamento adeguatamente formati di lavorare insieme per restituire la legittimità dell’esistenza, della morte e del lutto del figlio perduto. Non resta che auspicare che questo movimento ben presto si espanda anche in Italia, dove raramente questa problematica è presa in conto. Mi ricordo di una madre che, distrutta dal dolore, era in attesa di subire il parto indotto, corollario di un aborto terapeutico. Nella stessa stanza, due altre donne: una era lì per interrompere la sua gravidanza, l’altra aveva appena dato alla luce un bellissimo bambino. Intorno alla sua sofferenza, indifferenza e imbarazzo…
L’autrice descrive il suo metodo, derivato dalla psicosintesi, calandolo opportunamente nel contesto di 4 casi clinici, uno dei quali è un padre: le sue dinamiche sono ovviamente diverse da quelle delle madri, ma sono particolarmente illuminanti, per farci capire che non c’è chi soffre di più o di meno, ma solo sofferenze diverse, altrettanto degne di attenzione.
Daniela Muggia, tanatologa
Febbraio 2019, articolo su Gente sana Vivere con la malattia, di seguito l'articolo scarica il PDF
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VIVERE CON LA MALATTIA
La malattia non si riassume nella sofferenza, così come il malato non si riassume nella sua malattia
“La mia malattia è una traversata del deserto.
Se sarà per me l’inferno, con la paura in corpo e il capo chino,
o il luogo della mia vastità,
dipenderà dal piede, greve o leggero, che calcherà le dune,
dall’occhio perso nei grani di sabbia o capace di contenere l’orizzonte,
e dall'avere o meno al mio fianco un compagno di strada”.
Scrivo della malattia per esperienza. Accompagno i malati da quasi trent’anni e da quindici convivo personalmente con una malattia autoimmune. Ma soprattutto sono portatrice di un’altra malattia, sempre di esito mortale, trasmissibile sessualmente e altamente contagiosa: la Vita!
Sembra un’affermazione provocatoria, ma non lo è: le nostre cellule muoiono anche mentre “stiamo bene”. Ne perderete mediamente 104 milioni nei due minuti impiegati per leggere questo articolo.
Questo, per dire quanto è artificiosa la separazione tra il malato e il sano, i quali tendono a considerarsi abitanti di due universi che non si toccano se non sul piano della relazione di aiuto o della relazione affettiva.
Tuttavia la scienza ci ricorda che se, da un lato, in base alla fisica classica e sul piano della materia, i fenomeni appaiono separati, dal punto di vista della fisica quantistica non lo sono affatto, e hanno nell’appartenenza al campo quantico una fonte cognitiva comune.
Ogni “punto” del campo quantico virtualmente conosce ogni altro suo punto; spesso questa concezione dell’universo viene utilizzata per spiegare i fenomeni spontanei di empatia, e quelli che riguardano la cosiddetta “coscienza non locale”, come le visioni delle NDE[1].
Ciascuno di noi, come la goccia diventa oceano appena smette di “pensarsi goccia”, può cogliere ogni sofferenza del mondo se solo lascia cadere la barriera artificiosa che da essa lo separa. Abbassarla può sembrare rischioso per un cosiddetto “sano”. E tuttavia è ormai dimostrato che accade proprio il contrario, e che il cosiddetto sano e il cosiddetto malato trovano nel crollo delle barriere una reciproca forza, purché lo stato di alta empatia che si viene a creare non scivoli in uno stato fusionale. Il problema era noto anche prima che le neuroscienze ce lo spiegassero, e troviamo una splendida soluzione negli studi tibetani sulla mente: orientare eticamente l’empatia attraverso la compassione. Ad empatia e compassione corrispondono due zone cerebrali diverse, dunque percorsi sinaptici diversi: l’uno volto ad evitare di scivolare nel rapporto fusionale e l’altro volto a cogliere lo stato dell’altro, soddisfacendo così la nostra natura empatica di mammiferi.
La malattia fa parte della vita in quanto la vita è impermanente. Ciò vuol dire che sono impermanenti tanto la salute quanto (buona notizia!) la malattia: a parte guarire e morire, posso anche cambiare la qualità della mia vita mentre sono malato, sicché non sono impotente anche quando mi sembra di esserlo.
Mi rivolgo di solito a malati, curanti, accompagnatori e famigliari, perché occorre che tutti collaborino insieme se si vuole che per il malato la “traversata del deserto” diventi “il luogo della sua vastità”.
La prima sofferenza da affrontare e trasformare è spesso quella che deriva da una maldestra comunicazione della diagnosi infausta, spesso più devastante del suo stesso contenuto. Sembra incredibile ma è ancora frequente, per cui nel metodo ECEL[2] che ho messo a punto in questi anni si offre al malato una diversa modalità di lettura della comunicazione maldestra, guarendo così se non altro da quella ferita aggiunta.
I mutamenti che la malattia porta con sé sono potenti ma non tutti negativi. Per esempio, la sofferenza possiede dei punti deboli che corrispondono alla resilienza del malato, ossia a una serie di forze, perlopiù nascoste ai suoi occhi, che gli permetteranno di “calcare le dune con piede leggero”, con “l’occhio capace di contenere l’orizzonte”.
Anche in questo sta il valore del suo “compagno di strada”, che può imparare a far emergere nel malato le sue peculiari risorse invece di propinargli una personale visione di cosa “sia bene“ per lui. Lo aiuterà a trovare qualcosa di buono nella sua malattia.
Alla diagnosi di una malattia potenzialmente mortale o cronicamente invalidante corrisponde uno stato in cui tutti i turbamenti si mescolano: paura della sofferenza fisica, della morte o di un’invalidità permanente; paura delle molte perdite a venire (della nostra autonomia, di un ruolo sociale o affettivo, della capacità di comunicare e di esercitare la nostra volontà) e le ansie per non aver detto o fatto certe cose, o per aver detto o fatto cose che ora troviamo inopportune, e la confusione di non sapere come risolvere tutti questi “sospesi” ora che il tempo incalza e sentiamo le forze venir meno.
Spesso uso l’esempio della malattia terminale non solo perché come tanatologa accompagno chi l’affronta da molti anni, ma perché in essa si concentrano tutte le sfaccettature della sofferenza, e l’esperienza mi ha insegnato il valore di un vecchio detto latino: “divide et impera”. Parcellizzare la sofferenza scoprendo di cosa si compone e trovando nelle risorse sia esterne che interiori un antidoto per ogni suo aspetto, fa sì che essa ci sembri meno invalicabile, evitandoci di sprofondare nella disperata impotenza che nasconderebbe ai nostri occhi proprio le risorse interiori che in quel momento dovremmo invece saper riconoscere e mettere in atto per operare sulla qualità della nostra vita.
Ciascuno di noi ha infatti una natura resiliente, quella che ci fa emergere più forti dai peggiori eventi della vita, ed è importante sapere non solo che ce l’abbiamo, ma come stimolarla in noi e negli altri, e riappropriarcene.
Questo non cancellerà la sofferenza della mente e del cuore, ma ci consentirà di trasformarla in qualcosa con cui si può convivere, e in un’occasione di crescita collettiva che toccherà tutti i protagonisti del “mandala della sofferenza” ove, secondo il metodo ECEL, «si impara a riconoscere il posto centrale al malato [...], ma sempre compreso nella sua interazione con il resto, dunque mai isolato dal contesto, dai suoi famigliari o dai suoi compagni [...], dalle relazioni con i suoi simili [...] e con i curanti. Ciò significa che ogni componente del mandala ha la possibilità di accompagnare l’insieme, anche se sono gli interessi del malato a dover prevalere».[3]
Prendere coscienza di essere parte di questa struttura interdipendente ci consente di mutarla, e la trasformazione ricadrà su tutti i suoi elementi.
Il concetto di interdipendenza, caro anche alla fisica quantistica, ci ricorda che è nell’unione e non nella separazione che troviamo forza. La “legge del più forte” non ha alcun fondamento scientifico né fu Darwin a formularla[4]. La nostra forza è il gruppo. E se abbiamo perso di vista l’empatia per motivi più che altro culturali, essa riemerge potentemente quando più abbiamo bisogno degli altri: all’inizio e alla fine di una vita.
Dott.sa Daniela Muggia, tanatologa.
[1] L’acronimo sta per Near Death Experiences, le Esperienze di quasi morte, o di
Premorte o in altra traduzione, di Morte imminente. consiglio in proposito il bellissimo
libro del dott. Pim Van Lommel, cardiologo olandese oggi considerato la massima
autorità in materia: Coscienza oltre la vita. La scienza delle esperienze di premorte, Edizioni Amrita, Torino, 2017.
[2] Empathic Care of the End of Life, ossia l’Accompagnamento Empatico della Sofferenza Terminale.
[3] S. Cattinelli e D. Muggia, Tenersi per zampa fino alla fine. Accompagnamento empatico e cure palliative per gli animali alla fine della vita, Amrita, Torino 2014.
[4] Darwin mise infatti l’accento sull’unione di collaborazione e competizione (e non sulla sola competizione!) come causa di sopravvivenza della specie umana in condizioni difficili. Fu il suo allievo Spencer a formulare l’idea che l’evoluzione si fondi sull’esclusione, giustificando così le disparità sociali.